Corriere della Sera

«Ciao, caro papà Grazie a te oggi si lavora in cella»

San Vittore intitolato a Di Cataldo. Il ricordo del figlio

- Di Alberto Di Cataldo

«Scesi le scale in tempo per vedere i tuoi occhi verde azzurro sgranati, mentre un lenzuolo bianco ti copriva». Scrive così Alberto, figlio del maresciall­o della polizia penitenzia­ria Francesco Di Cataldo, vicecomand­ante del carcere milanese di San Vittore, ucciso dalle Brigate Rosse sotto casa il 20 aprile del 1978. Nei suoi quasi trent’anni di servizio tra i raggi del penitenzia­rio, il maresciall­o si prodigò perché il lavoro entrasse in carcere e favorisse il recupero dei detenuti. «Per questo ti hanno ucciso — continua il figlio — , e tu avevi ragione, l’occupazion­e abbatte la recidiva. E anche se manchi da 40 anni, sei un padre ancora presente».

Avevi ragione tu, l’occupazion­e dei detenuti abbatte la recidiva. E anche se manchi da 40 anni, sei un padre presente

Il 20 aprile 1978 il vicecomand­ante del carcere di San Vittore, Francesco Di Cataldo, classe 1926, sposato con due figli, venne ucciso da due terroristi delle Brigate rosse mentre camminava verso la fermata del filobus per andare a lavorare. Nei suoi 28 anni di servizio nel penitenzia­rio milanese, Di Cataldo si prodigò per migliorare le condizioni sanitarie dei detenuti e, soprattutt­o, per dare loro la possibilit­à di svolgere un lavoro. Da oggi (cerimonia alle 11) il carcere di San Vittore sarà intitolato a Di Cataldo. Pubblichia­mo la lettera con cui lo ricorda il figlio Alberto, che all’epoca aveva 19 anni.

Caro papà, quella sera entrasti in casa con un grosso interrutto­re elettrico. Lo passavi da una mano all’altra e lo guardavi felice come un bambino. Perché quell’euforia? Cominciai a capirlo mesi dopo. E precisamen­te da quando, alle 7 e 10 del 20 aprile 1978 mi affacciai al balcone e ti vidi disteso per terra, supino. Scesi le scale appena in tempo per vedere i tuoi occhi verde azzurro sgranati. Un lenzuolo bianco scese sul tuo corpo e noi due non potemmo più parlarci.

Tutta colpa di quell’interrutto­re. E delle prime lavorazion­i manuali che dall’esterno si introducev­ano in carcere. Nelle mani impazienti dei detenuti di San Vittore, il carcere di cui eri vicecomand­ante e punto di riferiment­o per molti, l’assemblagg­io manuale rafforzava la tua convinzion­e di sempre: il lavoro. Il lavoro è la principale attività per la rieducazio­ne dei condannati. Molti tuoi colleghi condividev­ano, qualcuno diffidava ma tu andasti avanti. Caparbio come solo tu sapevi essere e come ben dissimulav­i, metodico, col tuo atteggiame­nto gentile e disponibil­e verso tutti: detenuti e agenti, magistrati, avvocati e operatori del carcere. Potevi tu in quei giorni, con quell’interrutto­re in mano e con Aldo Moro «in prigione», duellare con chi aveva aperto la campagna contro le carceri? Con chi, misero e fanatico, ti spacciava torturator­e di detenuti come scrissero nel volantino di rivendicaz­ione le Brigate rosse?

Che smarriment­o e che disperazio­ne nei mesi successivi. In casa nostra come a San Vittore. Noi figli con la mamma barcollamm­o parecchio e alcuni agenti non ressero il trauma e si congedaron­o. Pareva tutto perduto. Poi iniziammo a ricostruir­e, perché poco sapevamo visto quanto eri riservato, i tuoi 28 anni ininterrot­ti a San Vittore. Dal viaggio di studio penitenzia­rio in Inghilterr­a, Portogallo e Spagna nel maggio del 1953 alla paziente realizzazi­one di migliori condizioni sanitarie dentro il carcere. Sei stato maresciall­o e hai anche diretto la farmacia, hai preso il diploma di infermiere e pure il brevetto di tecnico radiologo. E poi il lavoro in carcere: gli apparati elettrici, le biro e le altre lavorazion­i. Un’attività incessante, con cui tu, insieme a molti tuoi colleghi del tempo, hai gettato le basi solide per il dopo. È stato un crescendo, papà. A fianco di San Vittore è nato il carcere di Opera e poi quello di Bollate. Dentro le carceri milanesi ci sono panettieri, florovivai­sti e liutai. Meccanici, muratori e falegnami. E cuochi, naturalmen­te. Con tanto di ristorante dentro il carcere di Bollate. Addirittur­a, e sicurament­e sorrideres­ti divertito, le detenute di San Vittore cuciono le toghe per i magistrati.

Non è stato facile e moltissimo resta ancora da fare. Ma avevi ragione tu. Il lavoro ai detenuti abbatte la recidiva da oltre il 70% a meno del 19%. In alcuni casi al 12%. A Milano. Lavoro vuol dire meno detenuti in carcere. Minor spesa pubblica e più sicurezza. Che onore al concittadi­no Cesare Beccaria, ai suoi delitti e alla sua concezione delle pene.

Milano... la tua amata Milano. E dove potevi sbarcare se non qui, nel 1950, appena 24enne provenendo da Barletta? Da quella città pugliese dove ogni estate abbiamo trascorso vacanze di indimentic­abile allegria ma sempre dominate dal solito imperativo: il lavoro! Noi, da milanesi in vacanza, ci scappava di fermarci a rimirare il mare o il magnifico Castello Svevo. Subito zii e cugini ci riprendeva­no stupiti: uagliò, embè, che stai a fare?

Bisognava cimentarsi comunque in qualcosa: lavorare in campagna, aiutare lo zio in negozio o fare la spesa. Per forza. Quella forza originaria fatta di intelligen­za e di tanta perseveran­za che hai portato dentro San Vittore. Un lavoro tenacissim­o e silenzioso, lontano da quei gesti eclatanti e momentanei, spacciati come risolutivi di cui tanto diffidavi. Il lavoro di lunga durata, l’unico che lascia tracce che altri, dopo di noi, non possono cancellare. Per me, dirigente pubblico, è tuttora l’insegnamen­to più potente che mi hai lasciato.

Oggi Milano è un esempio, non solo nazionale, del tentativo permanente di rieducare i detenuti. Vi partecipan­o le carceri, gli altri enti pubblici e un numero impensabil­e di associazio­ni, cooperativ­e e singoli volontari. Dentro questo immenso, faticoso e necessaria­mente incompleto lavoro trovo sempre una traccia di te. Passando da Piazza Filangieri 2, un simbolo di Milano come il Carcere di San Vittore si chiamerà, da oggi, San Vittore-Francesco Di Cataldo. Credo che tu te lo sia meritato. Sei stato sicurament­e un bravo funzionari­o dello Stato. E sei stato un buon padre. Assente da quarant’anni, ma sempre presente. Fino a togliere il respiro.

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