Da «presa in giro» a «messaggio serio» Le mille posizioni del Pd sul referendum
Da «referendum inutile e costoso» a «messaggio serio» che illumina una «gigantesca questione fiscale», come spiega Matteo Renzi. Il voto sull’autonomia in Lombardia e in Veneto spiazza un Pd schizofrenico, diviso temporalmente, tra il prima e il poi, e spazialmente, tra Roma e il Nord. E mentre la Lega va all’incasso del risultato, i dem provano a mettere la sordina ai distinguo sull’utilità dello strumento referendario e a rivendicare qualche timida apertura autonomista. Traduzione leghista, nel loro linguaggio materico e muscolare: «Anche loro vogliono partecipare al banchetto». Dei voti, s’intende.
Prima del referendum, erano state molte le voci critiche, indignate o ironiche, sul voto di domenica. Alessandra Moretti lo ha definito «inutile», come Debora Serracchiani. Matteo Mauri condivideva l’aggettivo, aggiungendone un altro: «Costoso». Per Ettore Rosato è «ultroneo». Nel dopo voto, il ministro Maurizio Martina — che aveva evocato il «rischio Catalogna» — mantiene la sua ostilità pur nel rispetto di chi ha votato, spiegando che «sul fisco non si tratta» e che in Lombardia «è una sconfitta di Maroni».
Eppure non la pensano così i tanti sindaci del Pd che si sono riuniti in comitato per sostenere le ragioni dell’autonomia. E a loro va il merito di aver mantenuto il mitologico «rapporto con il territorio», tanto citato e così poco praticato. Come dice il sindaco di Treviso Giovanni Manildo, questo voto è stato «una secchiata d’acqua» in faccia al Pd e anche a Renzi: «Sì, è servito a svegliare tutti quelli che non ci consideravano. Ora forse le ragioni del Nord saranno rispettate un po’ di più». E tra l’altro, aggiunge, «come si poteva pensare di dire no a questo referendum? Era una domanda del tipo di quelle di Catalano, a “Quelli della notte”: vuoi una donna giovane, bella e ricca o no?».
La donna di cui sopra, nell’immaginario dei proponenti, sarebbe il Nord, libero dal giogo fiscale centralista. Naturalmente il tema è complesso e le ragioni della Lega restano lontane anni luce da quelle dei sindaci pd. Ma Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, spiega bene lo iato che resta con un certo tipo di politica e di partito: «Il nostro sì è servito a far
capire nel Nord che c’è un’istanza forte di autonomismo che non è solo leghista. Renzi lo ha spiegato bene. Il vero rischio di questo referendum non era la vittoria del sì e i troppi votanti, ma la scarsa affluenza. Perché in quel caso si sarebbero rafforzate le posizioni centraliste, che sono trasversali». Meglio tornare in pista, dice Gori: «Riappropriarci della nostra tradizione federalista e tornare alle idee di Chiamparino». Di recente non è andata così: «Il referendum costituzionale lo abbiamo appoggiato ma a fatica, perché la rilettura del Titolo V non era propriamente federalista».
Il sindaco di Lecco Virginio Brivio definisce «afono» il Pd: «C’è stata una sottovalutazione della questione settentrionale. La libertà di voto è sembrata più indecisione che strategia. Se anche noi sindaci avessimo detto no, sarebbe stato il trionfo della Lega». Per il sindaco di Varese Davide Galimberti, addirittura «il 90 per cento dei lombardi vuole autonomia».
E insomma, nel muro centralista si è aperta una crepa e i timori di chi paventa il «pendio scivoloso», che cioè l’autonomia si trasformi in richiesta di statuto speciale e oltre, lasciano spazio a riflessioni più sfumate. Come quella di Emanuele Fiano: «Lo strumento era sbagliato, sarebbe bastato fare come il governatore Stefano Bonaccini. E quella di Maroni è stata una campagna elettorale. Ma l’obiettivo del referendum era giusto».
Io penso che dobbiamo riappropriarci della nostra tradizione federalista e tornare alle idee di Sergio Chiamparino Giorgio Gori Lo strumento era sbagliato, sarebbe bastato fare come Bonaccini. Maroni ha fatto campagna elettorale Emanuele Fiano