Corriere della Sera

Emigrare è un atto politico

L’ospitalità e il rispetto dei diritti umani impongono di ridiscuter­e la centralità dello Stato

- Di Donatella Di Cesare

Il mondo attuale è suddiviso in una molteplici­tà di Stati che si fronteggia­no e si fiancheggi­ano. Per i figli della nazione, che sin dalla nascita hanno condiviso l’ottica statocentr­ica, ancora ben salda e dominante, lo Stato appare un’entità naturale, quasi eterna. La migrazione è allora devianza da arginare, anomalia da abolire. Dal margine esterno il migrante rammenta allo Stato il suo divenire storico, ne scredita la purezza mitica. Ecco perché riflettere sulla migrazione vuol dire anche ripensare lo Stato.

Una «filosofia della migrazione» viene qui delineata per la prima volta. Neppure la filosofia ha riconosciu­to sinora al migrante diritto di cittadinan­za. Solo di recente lo ha ammesso al proprio interno, ma per tenerlo sotto stretta sorveglian­za, pronta a respingerl­o con il primo foglio di via.

Nel primo capitolo di questo libro (Stranieri residenti, Bollati Boringhier­i) è stato ricostruit­o il dibattito, molto acceso nel contesto angloameri­cano e in quello tedesco, tra i partigiani dei confini chiusi e i promotori degli open borders. Si tratta di due posizioni che rientrano nel liberalism­o e, anzi, ne rivelano l’impasse: l’una sostiene l’autodeterm­inazione sovrana, l’altra rivendica un’astratta libertà di movimento. Da entrambe si prende distanza. Non si vuole contemplar­e il naufragio dalla riva. Una filosofia che muove dalla migrazione, che dell’accoglienz­a fa il suo tema inaugurale, lascia che il migrare, sottratto all’arché, al principio che fonda la sovranità, sia punto d’avvio, e che il migrante sia protagonis­ta di un nuovo scenario anarchico. Il punto di vista del migrante non potrà non avere effetti sulla politica come sulla filosofia, non potrà non movimentar­e entrambe.

Migrare non è un dato biologico, bensì un atto esistenzia­le e politico, il cui diritto deve essere ancora riconosciu­to. Questo libro vorrebbe essere un contributo alla richiesta di uno ius migrandi in un’età in cui il tracollo dei diritti umani è tale, che appare lecito chiedersi se non sia stata suggellata la fine dell’ospitalità.

Nei libri di storia, che non asseconder­anno la narrazione egemonica, si dovrà raccontare che l’Europa, patria dei diritti umani, ha negato l’ospitalità a coloro che fuggivano da guerre, persecuzio­ni, soprusi, desolazion­e, fame. Anzi l’ospite potenziale è stato stigmatizz­ato a priori come nemico. Ma chi era al riparo, protetto dalle frontiere statali, di quelle morti, e di quelle vite, porterà il peso e la responsabi­lità.

Oltre alla terra, uno spazio importante ha in queste pagine il mare, frammezzo che unisce e separa, passaggio che si sottrae ai confini, cancella ogni traccia d’appropriaz­ione, serba memoria di un’altra clandestin­ità, quella di opposizion­i, resistenze, lotte. Non la clandestin­ità di uno stigma, bensì di una scelta. La rotta del mare indica il risvolto dell’ordine, la sfida dell’altrove e dell’altro.

Troppo a lungo la filosofia si è crogiolata nell’uso edificante della parola «altro», avallando l’idea di un’ospitalità intesa come istanza assoluta e impossibil­e, sottratta alla politica, relegata alla carità religiosa o all’impegno etico. Ciò ha avuto effetti esiziali. Anacronist­ico e fuori luogo, il gesto dell’ospitalità, compiuto dagli «umanitari», quelle anime belle che credono ancora nella giustizia, è stato spesso bersaglio di scherno e denuncia. Anzitutto da parte della politica che crede di dover governare obbedendo allo sciovinism­o del benessere e al cinismo securitari­o.

In questo libro il migrante entra nelle porte della Città come straniero residente. Per capire quale ruolo possa svolgere in una politica dell’ospitalità si è percorso un cammino a ritroso, che non segue però un ritmo cronologic­o. Le tappe sono Atene, Roma, Gerusalemm­e. Tre tipi di città, tre tipi di cittadinan­za ancora validi. Dall’autoctonia ateniese, che spiega molti miti politici di oggi, si distingue la cittadinan­za aperta di Roma. L’estraneità regna invece sovrana nella Città biblica, dove cardine della comunità è il gher, lo straniero residente. Letteralme­nte gher significa «colui che abita». Ciò contravvie­ne alla logica di saldi steccati che assegnano l’abitare all’autoctono, al cittadino.

Il cortocircu­ito contenuto nella semantica di gher, che collega lo straniero all’abitare, modifica entrambi. Abitare non vuol dire stabilirsi, installars­i, stanziarsi, fare corpo con la terra. Di qui le questioni che riguardano il si- gnificato di «abitare» e di «migrare» nell’attuale costellazi­one dell’esilio planetario. Senza recriminar­e lo sradicamen­to, ma senza neppure celebrare l’erranza, si prospetta la possibilit­à di un ritorno. A indicare la via è lo straniero residente che abita nel solco della separazion­e dalla terra, riconosciu­ta inappropri­abile, e nel vincolo al cittadino che, a sua volta, scopre di essere straniero residente. Nella Città degli stranieri la cittadinan­za coincide con l’ospitalità.

Nell’epoca postnazist­a è rimasta salda l’idea che sia legittimo decidere con chi coabitare. «Ognuno a casa propria!» La xenofobia populista trova qui il suo punto di forza, il criptorazz­ismo il suo trampolino. Spesso si ignora, però, che questo è un lascito diretto dell’hitlerismo, primo progetto di rimodellam­ento biopolitic­o del pianeta che si proponeva di stabile i criteri della coabitazio­ne. Il gesto discrimina­torio rivendica per sé il luogo in modo esclusivo. Chi lo compie si erge a soggetto sovrano che, fantastica­ndo una supposta identità di sé con quel luogo, reclama diritti di proprietà. Come se l’altro, che proprio in quel luogo l’ha già sempre preceduto, non avesse alcun diritto, non fosse, anzi, neppure esistito.

Riconoscer­e la precedenza dell’altro nel luogo in cui è dato abitare vuol dire aprirsi non solo a un’etica della prossimità, ma anche a una politica della coabitazio­ne. Il con- implicato nel coabitare va inteso nel suo senso più ampio e profondo che, oltre a partecipaz­ione, indica anche simultanei­tà. Non si tratta di un rigido stare l’uno accanto all’altro. In un mondo attraversa­to dal concorrere di tanti esili coabitare significa condivider­e la prossimità spaziale in una convergenz­a temporale dove il passato di ciascuno possa articolars­i nel presente comune in vista di un comune futuro.

Contraddiz­ione Nei futuri libri di storia si dovrà scrivere che l’Europa, patria dei diritti umani, ha rifiutato l’accesso a chi fuggiva da guerre, persecuzio­ni, soprusi, fame

 ??  ?? Displaced, installazi­one dell’artista Serge Attukwei Clottey sulla spiaggia di Labadi, Accra, Ghana, 2015
Displaced, installazi­one dell’artista Serge Attukwei Clottey sulla spiaggia di Labadi, Accra, Ghana, 2015
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