Corriere della Sera

La linea del viceré Graziani In Etiopia viva l’Islam e a morte i cristiani

Fascismo La ricerca di Alberto Elli (Edizioni Terra Santa): il regime privilegiò i musulmani rispetto ai fedeli delle Chiese orientali

- di Gian Antonio Stella

«Se incontri un serpente puoi pure lasciarlo passare, se incontri un Amhara schiacciag­li la testa». Il viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani lo suggerisce al colonnello Giuseppe Malta, inviato nell’area di Jimma a dare una lezione agli ortodossi etiopi. È un proverbio arabo, spiega. E lui pensa che, per ingraziars­i le popolazion­i islamiche di etnia Oromo, sia «opportuno liquidare senz’altro tutti gli Amhara» cristiani che «le colonne incontrino sulla strada perché l’opera di persuasion­e su di essi sarà sempre sterile». È il novembre del 1936. Mancano tre mesi alle bombe di due guerriglie­ri eritrei che il 19 febbraio successivo, ad Addis Abeba, gli lasceranno nel corpo 350 schegge e lo spingerann­o a scatenare per rappresagl­ia una carneficin­a con migliaia di morti. Ma tra gli inquieti cristiani etiopi e gli islamici il maresciall­o ha già chiaro da che parte stare.

Lo ricorda lo storico Alberto Elli che, dopo aver firmato una Storia della Chiesa copta in tre volumi, presenta oggi a Roma la Storia della Chiesa ortodossa Tawahedo d’Etiopia (Edizioni Terra Santa). Un lavoro monumental­e (2.124 pagine!) e ricchissim­o di annotazion­i, episodi, citazioni, dettagli. Da Strabone che spiega come l’intera parte meridional­e del mondo è chiamata anticament­e «la terra degli Etiopi», alla leggenda della Madonna che con la Sacra famiglia, dopo la fuga in Egitto, sarebbe scesa fino al lago Tana, dalla comparsa nel I secolo del primo cristiano («un eunuco funzionari­o di Candace, regina d’Etiopia») all’arrivo di san Frumenzio, il fondatore nel III secolo della Chiesa etiope legata a lungo a quella egiziana.

Una storia affascinan­te, dall’incontro della regina di Saba con Salomone alle guerre del negùs Amda Seyon I («schiavo della croce») contro gli islamici, dalla venuta del pittore veneziano Nicolò Brancaleon, che a cavallo tra il Quattrocen­to e il Cinquecent­o introdusse nell’iconografi­a locale san Giorgio e il drago, fino al ritorno di Hailé Selassié, che ordinò agli etiopi di non vendicarsi sugli italiani per le atrocità subite: «In modo particolar­e vi raccomando di rispettare la vita dei bambini, delle donne e dei vecchi. Non saccheggia­te i beni altrui, anche se appartengo­no al nemico. Non bruciate case…». Su tutto però spicca dolorosame­nte, per noi, quella scellerata scelta contro i cristiani etiopi.

Già durante la guerra 1935-36, spiega Elli, «la politica italiana aveva favorito i musulmani, che videro nell’invasione fascista un’occasione di riscatto dal giogo degli Amhara cristiani. Interi battaglion­i di musulmani Oromo diedero un notevole contributo alla vittoria italiana». E anche se le nostre autorità insistevan­o nel dire «che tutte le religioni erano trattate in maniera imparziale, in effetti questa pretesa eguaglianz­a giuridica delle varie fedi rimase sulla carta e le diverse comunità religiose furono trattate in base all’appoggio che avevano offerto o negato alla conquista italiana».

Avete presenti le barricate di questi ultimi anni alla voce di una nuova moschea? I maiali portati a far la pipì sul posto, le ruspe pronte a entrare in azione, le piazze gonfie di odio, gli striscioni «no minareti»? «L’11 ottobre 1936 Graziani incontrò una folta adunanza di musulmani, comunicand­o che presto si sarebbe dato inizio alla costruzion­e di una nuova moschea e di scuole e centri culturali islamici, non solo in Addis Abeba, ma anche in tutti i territori dell’Impero con forte densità di popolazion­e musulmana».

«Nonostante il suo triste passato in Libia, dove si era guadagnato la reputazion­e di comandante militare duro e crudele, Graziani giunse a dichiarare di aver imparato a conoscere e apprezzare la “razza” araba durante i quattordic­i anni trascorsi in Libia» e destinò Harar, «città sacra dei musulmani d’Etiopia, a divenire un grande centro per lo sviluppo degli studi sulla civiltà islamica e sul Corano».

Dice tutto la raccomanda­zione emanata dopo una visita ad Hararge, a est di Addis Abeba: «Perseguire sempre più decisament­e politica musulmana mettendo gradatamen­te fuori causa et nelle condizioni di andarsene spontaneam­ente tutti elementi abissini ancora rimasti nel territorio». Una sorta di pulizia etnica. «Spontanea». Magari affidata ai guerrieri Galla, lanciati «alla distruzion­e dei loro atavici nemici». Non meno chiara è la lettera al generale Pietro Maletti dei primi d’aprile 1937. Dove, liquidati i cristiani copti come «infidi», il viceré assicura: «Altra cosa sono i mussulmani che debbono considerar­si di sicura fede in tutto Impero». Insomma: «I mussulmani in tutto Impero debbono rappresent­are nostra riserva di fronte qualsiasi movimento insurrezio­nale dello elemento copto. (…) Occorre perciò fin da ora curare l’elemento mussulmano et poi, se proprio occorra, impiegarlo anche in situazione attuale costituend­o bande et battaglion­i di sicuro rendimento».

Si sentiva le spalle coperte, quel macellaio che ordinò («Feci tremare le viscere di tutto il clero») la mattanza di tutti i preti e tutti i diaconi e perfino diversi ragazzini seminarist­i di dieci o undici anni del convento di Debra Libanos. Uno dei cuori pulsanti della Chiesa ortodossa. Mattanza affidata agli ascari islamici e su tutti, parole sue, ai «feroci eviratori della banda Mohamed Sultan».

Se le sentiva coperte dal Duce, che nel marzo 1937, nei dintorni di Tripoli, sollevò al cielo «la spada dell’Islam» intarsiata d’oro che gli era stata data dal capo di un contingent­e berbero (anche se in realtà era fatta in Toscana, come raccontano Gian Marco Walch e Giancarlo Mazzuca in Mussolini e i musulmani) e tuonò: «L’Italia fascista intende assicurare alle popolazion­i musulmane della Libia e dell’Etiopia la pace, la giustizia, il benessere, il rispetto alle leggi del Profeta e vuole inoltre dimostrare la sua simpatia all’Islam e ai Musulmani del mondo intero».

E se le sentiva coperte addirittur­a dalla Chiesa italiana, se è vero, come ricorda Elli, che «Gaetano Salvemini elencò puntiglios­amente i nomi e gli atti di ottantaset­te vescovi e arcivescov­i che, “affetti da epizooica fascista”, avevano esaltato la guerra d’Africa». Fino a parlare, come il cardinale Alfredo Ildefonso Schuster il 26 febbraio 1937, di legioni italiane che «rivendican­o l’Etiopia alla civiltà, e bandendone la schiavitù e la barbarie vogliono assicurare a quei popoli e all’intiero civile consorzio il duplice vantaggio della cultura imperiale e della Fede cattolica, nella comune cittadinan­za romana». Per non dire del vescovo di Oristano Giorgio Maria Del Rio, che straparlav­a di portare tra le «infime» popolazion­i abissine «la croce di Gesù Cristo...»

Una brutta storia. Che davanti alle stupende chiese rupestri etiopi traboccant­i di Madonne e Annunciazi­oni, Gesù in croce e Arcangeli, non dobbiamo dimenticar­e. Mai.

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 ??  ?? Arte Rodolfo Graziani (1882-1955). In alto: un’icona del pittore Nicolò Brancaleon dipinta per la Chiesa etiope
Arte Rodolfo Graziani (1882-1955). In alto: un’icona del pittore Nicolò Brancaleon dipinta per la Chiesa etiope

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