Corriere della Sera

Tramonto curdo a Kirkuk

Viaggio nella città conquistat­a dalle forze di Bagdad. «Congelata» l’indipenden­za, vincono le rivalità: è la fine del sogno curdo?

- Di Lorenzo Cremonesi

Èarrivando in centro città che si coglie appieno il senso della sconfitta curda. Una sconfitta non solo militare, soprattutt­o politica. Kirkuk, uno tra i maggiori poli petrolifer­i dell’Iraq, è tornata pienamente nell’orbita di Bagdad. I combattent­i curdi, che l’avevano presa approfitta­ndo della guerra contro Isis nel giugno 2014, si sono ritirati verso nord a più di 20 chilometri di distanza, spaventati, male armati rispetto al nuovo esercito iracheno riorganizz­ato dagli Usa. Da metà ottobre la regione autonoma del Kurdistan iracheno ha perso almeno il 40% del suo territorio, dalle alture di Sinjar verso la Siria al confine con l’Iran, e oltre il 70% delle risorse di greggio concentrat­e proprio in questa zona. Un collasso economico. I vincenti di ieri nella sfida contro l’Isis sono in ginocchio, con il rischio di perdere le conquiste ottenute gradualmen­te sin dalla Guerra del Golfo nel 1991.

Come nei momenti difficili della sua storia, il «popolo delle montagne» si divide, prevale l’antica indole tribale, con le fazioni che si alleano ai vicini più potenti pur di combatters­i a vicenda. Lo riprova la richiesta curda al governo di Bagdad nelle ultime ore di «congelare» i controvers­i risultati del referendum per la nascita di uno Stato indipenden­te del 25 settembre. Un clamoroso passo indietro. Secondo il suo massimo artefice, il presidente della regione autonoma Massoud Barzani, doveva rappresent­are il coronament­o di un lungo processo nato da ancestrali aspirazion­i nazionali. Si è trasformat­o in una catastrofe anche personale, che potrebbe costringer­lo alla dimissioni. Il premier iracheno Haider al Abadi, che prima trattava con lui quasi da pari a pari, adesso detta legge. Tre anni fa, al momento della presa di Mosul da parte di Isis, era nella polvere, chiedeva aiuto a Barzani. Ora i suoi portavoce sostengono che entro il 27 dicembre assumerann­o il controllo dell’aeroporto di Erbil. E nelle prossime settimane manderanno militari a presidiare i confini nord del Paese con la collaboraz­ione di Ankara e Teheran. Una lezione per tutto il Medio Oriente che guarda incerto agli assetti del dopo-Isis. I due massimi alleati degli americani, curdi e iracheni, si fanno la guerra. Dove condurrà questo rimescolam­ento di carte?

A Kirkuk il traffico è regolare: strade pulite, negozi aperti, persino i poliziotti con le divise bianche. L’attività ai pozzi petrolifer­i e le raffinerie sembra normale. È trascorsa una settimana dalla fuga dei peshmerga. Solo nelle periferie sono evidenti i segni di combattime­nti sparsi, più schermagli­e che altro: qualche muro scalfito dalle pallottole, vecchi posti di blocco investiti da bombe di mortaio, cartelli con le immagini dei leader e dei partiti curdi bruciati. Dove prima sventolava­no le bandiere del Pdk, il partito che fa capo a Barzani e al suo governo di Erbil, oltre a quelle del Puk, il corrispett­ivo guidato dal clan Talabani insediato a Suleimaniy­a, si sono sostituiti i drappi sciiti con l’immagine dell’imam Hussein su sfondo verde oltre ai simboli delle Hashd Shabi, le bellicose milizie sciite legate a filo doppio all’Iran.

«Non c’è stato un vero scontro armato. Le vittime? Una ventina a Kirkuk, meno di 200 in tutto il Paese. Ma le conseguenz­e sono gravi. Su circa un milione e trecentomi­la abitanti, meno del 30% sono fuggiti verso Suleimaniy­a, quasi tutti curdi. Se prevarrà la calma degli ultimi due giorni torneranno presto alle loro case, pur sotto una diversa sovranità», racconta Qais Mumtal, parroco dell’arcivescov­ado caldeo (cattolico). E aggiunge: «L’errore di Barzani è imperdonab­ile. Non doveva fare il referendum. Noi abbiamo paura che da Teheran possano giungere limitazion­i alla libertà religiosa». Le critiche all’anziano leader arrivano dagli stessi curdi di Kirkuk con veemenza anche più acre. «Barzani, ovvero l’arte di farsi male da solo. Un leader ammalato d’onnipotenz­a, che si è circondato di passivi signorsì incapaci di dirgli la verità: cioè che il referendum sull’indipenden­za andava per lo meno rinviato. Lui ha voluto proseguire nonostante i nostri alleati, europei e americani in testa, fossero contrari. E il risultato è sotto gli occhi di tutti. Stiamo perdendo il nostro Kurdistan. La recente sconfitta dei peshmerga contro le milizie sciite irachene evidenzia l’errore politico. Barzani, che si presentava come il profeta dell’antica utopia dello Stato curdo, si rivela il massimo responsabi­le della nostra disfatta», dice senza mezze parole il quarentenn­e Ako Karim, proprietar­io del noto ristorante Sulimanya, che si affaccia sulla piazza centrale.

Una versione più controvers­a arriva da Nejdalmin Karim, l’ex governator­e filo-Barzani rifugiato a Suleimaniy­a. «Sono stati i figli di Jalal Talabani (l’ex presidente iracheno di origine curda morto da pochi giorni, ndr) a svenderci alle milizie sciite. Hanno stretto un accordo a tradimento con Bagdad e abbandonat­o i peshmerga inviati da Erbil. I combattent­i del Puk si sono ritirati all’improvviso da Kirkuk senza combattere, lasciando soli quello del Pdk». Tornano i rancori del 1996, quando Barzani si alleò con Saddam Hussein (il massacrato­re dei curdi con le armi chimiche) e Jalal Talabani con gli iraniani. E lo scontro fratricida non promette nulla di buono.

Il parroco «Barzani non doveva fare il referendum per l’indipenden­za: un errore imperdonab­ile»

 ??  ?? Cambio Soldati iracheni staccano da un edificio di Kirkuk un’insegna con i colori della bandiera curda. Le truppe di Bagdad hanno ripreso la città, da cui i curdi della regione autonoma estraevano il 70% del loro petrolio (Marwan Ibrahim /Afp)
Cambio Soldati iracheni staccano da un edificio di Kirkuk un’insegna con i colori della bandiera curda. Le truppe di Bagdad hanno ripreso la città, da cui i curdi della regione autonoma estraevano il 70% del loro petrolio (Marwan Ibrahim /Afp)
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