Corriere della Sera

Un giorno nella Generazion­e Z «Qui si impara solo facendo»

Tanti gli stranieri. Huang: «Da voi ho appreso a rendere fattibile l’astratto»

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Con buona pace del tardo autunno, all’ingresso di via Sciesa a Milano ci sono un cinese, un americano, una svedese e un iraniano in maniche di camicia: non è una barzellett­a. «United Colors of Ied», la scuola internazio­nale che in questi 50 anni ha tirato grandi oltre 120 mila ragazzi a pane e design. Seguendo sempre lo stesso comandamen­to: si impara facendo, sperimenta­ndo.

«Dal primo giorno, la nostra forza antiaccade­mica è diventata una filosofia. Perché è dal caos creativo che nascono le cose più interessan­ti» racconta Emanuele Soldini, direttore di Ied Italia. Lo dice mentre davanti a lui in un laboratori­o di fotografia si scatta come una mitraglia: «In questo momento potrebbe succedere qualunque cosa, perché nella stanza ci sono competenze diverse, Mai da soli Una riunione tra gli studenti allo Ied di Milano. Molti gli stranieri, almeno il 30% nel totale del triennio (Foto Corner/La Presse) Il laboratori­o La modellisti­ca leggera e pesante: qui si costruisce il prototipo del prodotto (Corner/ La Presse)

Lo Ied negli anni è cresciuto. Questo ha comportato anche la necessità di allargare la casa. Ma quello di Milano non è un campus modello americano. «I nostri sono spazi diffusi, ci siamo ingranditi sfondando muri, rilevando ristoranti falliti. A qualcuno sembra un’architettu­ra voluta, in realtà è che non sappiamo più dove metterci» scherza Soldini. Questo ha generato una riqualific­azione di un quartiere che a metà del secolo scorso non era proprio di moda.

Anzi tendeva a essere malfamato e evitato dai giovani. C’erano i vecchi, le sale da biliardo e i bar dove giocare a ramino. Due passi, si gira l’angolo: là dove c’era un ristorante ora c’è un altro laboratori­o dove si respira l’aria di factory moderna: musica in sottofondo, il rumore non dà fastidio a nessuno. Più chiavi inglesi che computer (caso raro, dato che Ied ha il parco informatic­o installato più grande d’Italia).

Huang Xiaoxuan attacca post-it sul flusso delle sue idee: «In Cina si studia sui libri, qui si fa tutto a mano» dice quasi ancora sotto shock dopo tre anni di studi. Luiz invece è brasiliano e sta finendo il master in strategia del prodotto: «Imparo come rendere fattibile l’astratto, così potrò cambiare il mondo», dice, «Io ho imparato a costruire relazioni profession­ali — gli fa eco Monica, 26 anni, lituana —. Il design è creare qualcosa di utile per la gente». Huang come Luiz e Monica sono sbarcati da angoli opposti dello stesso mondo: li unisce lo spirito e l’anima di questa bottega 4.0.

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