«Dialogando con il pianoforte rinnovo la mia fede ogni giorno»
Il giovane Baryshevskyi: è stato difficile vivere a Parigi, la mia anima è a Kiev
Se uno nasce con un padre ministro della chiesa ortodossa e una madre psicanalista, il dilemma è decidersi tra Dio e Freud. Per non fa torto a nessuno, Antonii Baryshevskyi ha scelto Beethoven. Che da un lato è il dio della musica e dall’altro l’indagatore degli abissi dell’anima. E con Beethoven, la sonata 31 op. 110, si apriranno i due concerti che il giovane e già quotatissimo pianista ucraino, vincitore di due premi quali il Rubinstein e il Busoni, terrà in Italia oggi al Quirinale e domani a Bologna, al Teatro Manzoni. Un esordio intriso di religiosità, a cui seguiranno brani di Debussy, Chopin, Schumann, e in chiusura l’incandescente Vers la flamme di Scriabin, apocalittica profezia di un mondo prossimamente distrutto dal fuoco.
Dal cielo agli inferi. Un percorso che ben si addice a questo virtuoso della tastiera che sembra uscito da un romanzo di Dostoevskij. Un tratto sulfureo e sacrale testimoniato anche dalle sue scelte musicali, l’ultimo cd è l’integrale delle sonate di Galina Ustvolskaya pervase di fervore spirituale. «Il sacro e la musica sono stati i cardini della mia vita fin dall’inizio — racconta —. Sono nato credente, e la fede mi si è rivelata sempre più attraverso il dialogo intimo con il pianoforte». Un percorso difficile, nella religione e nell’arte il dubbio è sempre in agguato. «Il dubbio è importante, è un modo di rinnovare la fede. In questa ricerca la musica ha gran parte. Ti cambia dentro, per questo scelgo solo brani che mi tocchino nel profondo. Come quelli che proporrò nei concerti italiani, o come i meravigliosi Venti sguardi sul Bambin Gesù di Messiaen. Fede e musica, realtà parallele. La musica, l’aria, l’acqua sono gli elementi più importanti per l’essere umano».
Come tutti i talenti, anche lui ha iniziato prestissimo. «A sette anni, ma ho rischiato di smettere subito. Il mio primo insegnante aveva deciso che non ero portato. Fu mia madre a insistere, a sostenermi. Ho continuato per quella sua fede». Che musica ascolta? «La grande scuola russa, da Musorgskij a Scriabin. Molto ‘900, anche italiano, Sciarrino e Giacinto Scelsi, ingiustamente dimenticato. Ma sono figlio dei miei tempi, mi piacciono anche l’hard rock e la street music, i Radiohead e Björk».
In discoteca no, non ci va mai. «Non ne ho mai avuto il tempo. Adesso poi che sono padre di una bimba di due anni, Eva... Mia moglie, Vera Symchych, è una violinista, ci siamo conosciuti in conservatorio. A volte suoniamo insieme». Un modo di amarsi di più? «Mica tanto. Nella tensione dell’esecuzione può scappare qualcosa di troppo, che non pensi davvero. E allora si comincia a litigare...».
A differenza di altri suoi colleghi diventati famosi e subito traslocati in Occidente, lui e la sua famiglia non vogliono lasciare Kiev. «Con Vera abbiamo vissuto un anno a Parigi. È stato difficile, pur amando l’Europa ci sentivamo stranieri. E alla fine siamo tornati in patria. La nostra casa e la nostra anima sono in Ucraina».