Gli idoli astratti di Mirko Voci da un mondo primordiale
priva di autocritica. Suo padre, Raffaele Cadorna, è il generale della famosa breccia di Porta Pia del 1870. Una scaramuccia con poche perdite. I 13.157 soldati del Papa si arrendono e accumulano fucili e mitraglie in piazza San Pietro e il Regio esercito rende loro l’onore delle armi. Chissà perché. La carriera di Luigi non ha inciampi, Collegio militare di Milano, Accademia di Torino, Scuola di guerra, Corpo di Stato maggiore. Nel 1898 è generale, più che le caserme frequenta gli uffici. Nel 1914 è nominato capo di Stato maggiore, comandante supremo.
Le sue manchevolezze sono caratteriali e culturali. Cattolico conservatore, più che cristiano, manca di ogni capacità di analisi psicologica. La moderazione non è pane per i suoi denti, detesta le discussioni, è maniacalmente sospettoso, rifiuta l’idea di un Consiglio di guerra, si fida di pochi, è «convinto della propria infallibilità (o ossessionato dall’impossibilità di ammettere i propri errori)» scrive Mondini. Basta leggere le prime righe del comunicato del Comando supremo emesso il 28 ottobre 1917, il n. 586, per capire le doti di grande e generoso condottiero di Luigi Cadorna: «La mancata resistenza di riparti della 2ª Armata vilmente ritiratisi senza combattere, o ignominiosamente arresisi al nemico (...)», cui seguirono fucilazioni, decimazioni di uomini innocenti rimasti senza ordini, alla ventura.
La commissione d’inchiesta su Caporetto lo definirà, in atti ufficiali, orgoglioso, impulsivo, egocentrico, isolato dal mondo circostante a causa della sua megalomania. Si infuria per quei giudizi, ritiene di essere un capo paterno. Il culto della personalità che nel primo periodo del suo comando gli ha fatto da angelo custode non gli giova: anche il vate guerriero nazionale, Gabriele d’Annunzio, gli ha dedicato un’ode non mirabile: «(...) Tu lo vedi al segnale delle trombe/sollevare e sferrare i battaglioni (...)». È terrorizzato dalle sconfitte del passato, Novara, Custoza, Lissa. Il padre eroe di Porta Pia è un modello che gli fa da pungolo e insieme lo inquieta. Il modo di pensare di Cadorna non si adatta ai profondi mutamenti di una guerra che sarebbe stata lunga e sanguinosa, priva di ogni reminiscenza risorgimentale — baionetta, fucile, cavallo, sciabola lucente, bandiera al vento — ed è condizionata invece soltanto dalla potenza industriale del Paese.
Cadorna è convinto che la guerra sarà costosa, impegnativa, lunga. Ha il culto della guerra offensiva, il suo dio è la disciplina assoluta, un dogma: «La disciplina», riesce a dire in una circolare del primo anno di guerra, «è la fiamma spirituale della vittoria». Vieta anche, dopo lunghi periodi di trincea, le licenze ai soldati, terrorizzato che a casa raccontino verità nascoste, non si cura neppure di capire la stanchezza degli uomini che combattono da anni in anfratti di montagna, su picchi impressionanti solo a vederli. Punisce — il siluramento — un’infinità di generali e di ufficiali superiori, sguarnisce reggimenti, divisioni, corpi d’armata, armate, anche alla vigilia di una battaglia. Le motivazioni sono precarie, spesso mascherano i propri insuccessi. Per gli ufficiali è una spada di Damocle. Timorosi di essere esonerati (con un telegramma), per conquistare la fiducia del capo commettono a loro volta gravi errori. Il governo è preoccupato. (Mondini non accenna al XXVII Corpo di Badoglio e alle polemiche che ci furono).
Perché Caporetto? Per tutto questo. Per gli esoneri di massa con la sostituzione di ufficiali brillanti con favoriti soltanto fedeli. Per la mancanza di un piano difensivo e di un progetto di ritirata. Per la sottovalutata stanchezza dei soldati. Per la polemica continua con i socialisti, con Giolitti, con Benedetto XV, il Papa dell’«inutile strage»: sarebbe stato necessario piuttosto costruire un esercito con pazienza e umanità. E poi per la mancanza, fin dall’inizio, di un professionale ufficio informazioni incapace di sapere e di capire quel che stavano facendo i tedeschi e gli austriaci, per il clima cortigiano del Castello di Udine, il pirandelliano Comando supremo dove il capo non discute con nessuno, solo con un segretario.
Non ci fu nessuno sciopero militare, come si disse, nessun tradimento. Diaz sul Piave usò diplomazia, mediazione, prudenza, buon senso. E seppe creare nei salvati dal massacro quel sussulto di dignità che portò a Vittorio Veneto.
Due mostre ricordano Mirko Basaldella (Udine, 1910 Cambridge, 1969, nella foto in alto): una a Milano e una a Ravenna
● A Ravenna (Museo d’arte della città di Ravenna, sino al 7 gennaio) l’artista friulano è uno dei protagonisti della rassegna Montezuma, Fontana, Mirko: la scultura in mosaico dalle origini ad oggi, a cura di Alfonso Panzetta e Daniele Torcellini
● A Milano (Galleria Gariboldi, sino al 15 dicembre) sono in mostra sculture dal 1953 all’anno della morte (sopra, Il Babilonese, bronzo del 1962)
Miti e misteri. Ecco i binari su cui ha viaggiato un artista come Mirko Basaldella (1910-1969), presente in due esposizioni a Milano e a Ravenna. Nella prima (Galleria Gariboldi, sino al 15 dicembre) sono presentate una ventina di sculture dal 1953 all’anno della morte; nella seconda, invece (Museo d’arte della città di Ravenna, sino al 7 gennaio), l’artista friulano è uno dei protagonisti della rassegna Montezuma, Fontana, Mirko: la scultura in mosaico dalle origini ad oggi, a cura di Alfonso Panzetta e Daniele Torcellini: 140 lavori che partono dai «primitivi» mesoamericani per scandagliare, fra il 1930 e il 1940 gli esempi di Mirko (si veda Furore) e Fontana e, dopo un salto di circa cinque lustri (naturalmente con qualche eccezione) tentare una verifica delle «tessere musive» e della sua estensione al design.
Milano mostra il Mirko astratto, ormai completamente affrancato dalla lezione di Arturo Martini, frequentato dal ’32 al ’34 (allievo a Monza e aiuto a Milano). Mirko, nato a Udine, è figlio d’arte. Il padre, Leo, bazzicava con pittura e decorazione e i suoi fratelli si chiamano Afro e Dino, anch’essi artisti di primordine.
Studi a Venezia, Firenze e Monza prima di trasferirsi a Roma, dove fa la sua prima mostra nel ’35 alla Galleria La Cometa della contessa Mimì Pecci Blunt (nipote di Papa Leone XIII), diretta dal poeta Libero De Libero e da Corrado Cagli (di cui sposa la sorella Serena). Attorno a La Cometa gravitavano artisti e letterati: Carrà e Alvaro, De Chirico e Cecchi, Savinio e Montale, Soffici e Moravia, Purificato e Ungaretti.
Nella Capitale, il giovane Mirko conosce la Raphaël, Leoncillo, Mazzacurati, Fazzini, Scipione. Altre incidenze? Un viaggio a Parigi, col fratello Afro, nel ’37 (scopre il Cubismo); gli artisti romani del gruppo di «Corrente» nel ’39 e le suggestioni dell’arte antica e rinascimentale fanno il resto.
Suggestioni, s’è appena detto. Ecco il punto focale della narrativa di Mirko. Lo scultore s’è tenuto sempre fuori da schemi precisi e da una poetica caratterizzante. Più che altro è stato un continuo inventore, capace più di allusioni che di descrizioni. La tradizione, cui lo aveva indirizzato Martini, gli era servita come punto di partenza, ma anche per creare un nuovo linguaggio plastico che non obbe- disse ad alcuna regola. Da qui, l’invenzione di un mondo ancestrale, fatto di figure e linguaggi fuori dal tempo. Si vedano, nella rassegna milanese Il Fenicio (’61), Il Babilonese (’62), L’Assiro (’66): Ed ancora: Nike (’63), una sorta di interpretazione della statua della Vittoria, attribuita a Pitocrito (II secolo a. C.), conservata al Museo del Louvre. E che dire del Guerriero con scudo (’59)? E della Danzatrice (’69)? Sculture? Piuttosto poemetti in bronzo, capaci di ricreare un’atmosfera magica, rintracciabile probabilmente solo nei testi dei grandi viaggiatori africani o nei musei etnografici.
E vengono in mente le parole di uno straordinario poeta, giramondo e scrittore d’arte come Raffaele Carrieri: «Ritrovo nelle sembianze dei mostri e idoli della mitologia africana di Mirko, la sua antica mano di suonatore di clarino. L’invenzione, la grazia, le metafore visibili e occulte e un gioco aperto come un’improvvisazione studiata [...] — ha scritto l’autore de Il lamento del gabelliere —. Gli itinerari per un uomo come Mirko non sono decisi o diretti dalla solita agenzia di viaggio».
E, appunto, come un suonatore di clarino, l’artista dà vita a un singolare concerto dove le note sono sostituite da elementi di rame o di bronzo; da un esercito di idoli, feticci, sacerdoti, ossessi, ballerini, incantatori, guerrieri, sciamani, totem. Insomma, da una sorta di teatrino della memoria tribale, reso con un plasticismo al di fuori d’ogni regola. Ciò nasce da un gusto per l’arcaico e il primordiale che Mirko riesce a tradurre in mito e favola, superando forme accademiche e classicistiche ed esprimendosi con un linguaggio solo apparentemente astratto. Per il suo lavoro si sono fatti i nomi di Lipchitz (riduzione dell’immagine a elementi strutturali) o di González (essenzialità delle maschere ripresa dall’arte negra) e di Calder (figure zoomorfe), ma sono accostamenti che lasciano il tempo che trovano.
Il «linguaggio plastico — scriveva Mirko nel 1955 —, come qualsiasi pensiero espresso, ha una sua logica coordinata tutta particolare, con radici umane profonde, trasmette idee, evoca sentimenti, racconta la vita delle cose e degli uomini. Ma l’artista oggi non si limita nel narrare la vita del mondo circostante alla percezione visiva, bensì vuole conoscere le leggi che governano e determinano queste apparenze».
E lui sapeva farlo a menadito.