«Celebro il cinema Per le gare tra i film ci sono già i festival»
Monda: la Festa di Roma ha un budget limitato
Mondo Monda. Su i riflettori: luci e ombre della Festa del cinema di Roma. Ecco il pensiero del direttore artistico Antonio Monda (55 anni compiuti dando un party a New York dove ha cantato con Frances McDormand), quando siamo a metà percorso.
A cosa serve un Festival di cinema è noto: i Paesi emergenti, i nuovi autori, le tendenze, le star. A cosa serve una Festa del cinema?
«Non è un Festival e non vuole esserlo. Noi celebriamo e non mettiamo autori in competizione, anche se rispetto chi dice che aver eliminato il concorso ha tolto adrenalina. Cerchiamo un nuovo modo di comunicare, e gli incontri con attori e registi (che ignorano cosa andrò a chiedergli), sono centrali. Vengono per il piacere di parlare. Nessuna rassegna ha Xavier Dolan o altri protagonisti che si raccontano un’ora e mezza per il piacere di raccontarsi, senza dover promuoversi. A chi avrebbe voluto vedere una clip del nuovo film di Dolan, rispondo che il trailer è già disponibile».
La città di Roma dovrebbe essere più coinvolta?
«Sì, ma quest’anno andiamo a Rebibbia, in biblioteca, al Palladium, al Policlinico Gemelli dove i malati vedono i film dal letto, e in via Condotti. Comunque è vero, dovremmo essere più radicati».
È una Festa di facciata?
«Aprire, come nel 2016, con Moonlight, un film spiazzante, sui gay e sugli emarginati neri, a prescindere dall’Oscar vinto, è una medaglia. Tutti gli altri Festival aprono con film facili».
Ora ha inaugurato col western «Hostiles», che lei definì a Rai News un filmetto.
«Non è proprio così, lo definii opera di artigianato più che opera d’arte, e lo confermo. Non è un insulto».
La Festa è figlia della politica: ce n’è di meno nella Roma di Virginia Raggi?
«Tra i soci fondatori si contano Comune e Regione, debbo dialogare con la politica. C’è fiducia, tanto che mi hanno rinnovato l’incarico. Ma in tre anni non mi hanno raccomandato un film, semmai le pressioni sono da produttori e distributori».
Tra lei e il presidente della Festa Piera Detassis, candidata ai David, i rapporti sono stati pessimi.
«Piera era stata direttore a Roma in passato, abbiamo avuto divergenze creative. Le cose vanno meglio, mi ha fatto solo rispettose segnalazioni».
Poco cinema italiano perché il botteghino lo rifiuta?
«Per la verità rifiuto tutte le quote, prendo solo le cose che mi convincono. Sono consapevole di aver fatto venire qualche mal di pancia, ma accettare tutti significa mandare i film al macello e si fa un cattivo servizio al cinema. Le date della Festa del 2018? Dal 18 al 28 ottobre».
Il punto da migliorare?
«Il budget: 3 milioni 419 mila euro. È assurdo, un quarto di Venezia (e ci chiedono di confrontarci con la Mostra), un settimo di Cannes e Berlino. I film senza attori e registi che li accompagnano? Datemi più soldi e vi porto tutti».
Come ha convinto Nanni Moretti a partecipare a una rassegna da lui sempre vista con una certa distanza?
«Ha visto un cambiamento, un’identità forte acquisita, e gliene sono grato. Non ha messo alcun paletto sull’incontro di stasera».
I film su cui scommette?
«Il cileno Cabros de mierda ha uno spessore bressoniano; il libanese One of These Days per l’approccio umanista; I, Tonya che ha un umorismo nero stile Coen, storia della pattinatrice il cui fidanzato spezzò le gambe alla rivale; Detroit, la rivolta dei neri».
Lei vive negli Usa e ha una moglie di colore, Jacqueline. Il razzismo sotto Trump…
«Lo viviamo, anche se a New York in modo minore. Quando un nostro figlio tarda a rientrare, facciamo brutti pensieri. I tempi sono questi. Ma il razzismo esiste anche in Italia e in Europa».
Il direttore della rassegna: qui vengono attori e registi per il piacere di raccontarsi