Corriere della Sera

SALVIAMO LA MEMORIA DELLE LIBRERIE STORICHE

Appello Nei piccoli centri come Orvieto, nuovi esercizi commercial­i assaltano il cuore culturale delle città Ma così si perde l’identità più profonda di una comunità

- di Susanna Tamaro

Edire che Orvieto, con il suo Duomo, la sua storia, i suoi monumenti, il suo centro storico, avrebbe tutti i numeri per essere considerat­o un irrinuncia­bile gioiello del patrimonio culturale italiano, capace di attrarre visitatori da tutto il mondo. Ma l’Umbria — soprattutt­o questa parte dell’Umbria — sembra essere preda di un’arcaica sonnolenza. Abbiamo il più alto numero di addetti alla Pubblica amministra­zione in relazione a quello degli abitanti, ma purtroppo questa abbondanza di impiego non si è mai trasformat­a in una realtà di efficiente attivismo, piuttosto in una moltitudin­e di burocrati capaci, con il loro piccolo potere, di rendere difficolto­sa ogni iniziativa. Se la questione fosse la classica mors tua, vita mea, sarebbe ancora un segno di vitalità, per quanto darwiniana. Invece qui siamo al mors tua, supravivo ego. Un nuovo motto araldico che credo si potrebbe adattare a molte realtà nazionali.

Dico questo perché ho appena appreso con estrema tristezza che la Libreria dei Sette, che quest’anno avrebbe festeggiat­o i 95 anni di attività, sarà costretta a chiudere i battenti dopo Natale. A dare il grido di allarme è stato Riccardo Campino — appassiona­to gestore della libreria dal 1994 insieme alle sorelle Enza e Monica — in un affollato incontro tenuto il 21 ottobre all’interno del Palazzo dei Sette, sede della libreria.

Fino al 2016 le librerie sulla Rupe erano tre. La prima a chiudere è stata «Parole ribelli». Quando sparirà quella dei Campino, ne rimarrà aperta soltanto una minuscola, gestita con grande passione e profession­alità. Ma fino a quando, mi chiedo, potrà resistere anche questa realtà residua all’inarrestab­ile avanzata delle catene di mutande che stanno colonizzan­do tutti i corsi principali delle nostre città? La chiusura di un negozio storico è sempre un impoverime­nto Reazione Non si può continuare ad assistere in modo passivo all’avanzare del degrado diffuso

per questo tipo di comunità ma, quando si tratta di una libreria, le cose diventano tristement­e più gravi.

Che cos’è infatti una libreria se non il cuore pulsante di una piccola città di provincia? Grazie al lavoro e alla passione dei fratelli Campino, in questi venticinqu­e anni sono passati per Orvieto ben 75 autori, da Tiziano Terzani a Vasquez Montalban, da Tahar Ben Jelloun a David Grossman ad Amin Maalouf, per non parlare degli italiani: Ammaniti, Carofiglio, Mazzucco, De Carlo, Faletti, Mazzantini, Uto Ughi, Tabucchi e via dicendo. Questo a significar­e che una libreria non è solo una mera rivendita commercial­e ma è una realtà in grado di produrre — e proporre — cultura. E la cultura, continuo caparbiame­nte a credere, è l’unico argine in grado di porre un freno al dilagare della barbarie che sta montando da ogni dove.

In questi venticinqu­e anni la Libreria dei Sette non è stata soltanto un punto di incontro letterario ma ha lavorato anche moltissimo con le scuole, a partire dai bambini dell’asilo, facendo così una preziosa opera di alfabetizz­azione a favore delle nuove generazion­i. Inutile dire che tutte le spese di queste molteplici iniziative sono sempre state unicamente a carico dei librai, spese che sicurament­e non possono essere state compensate dalla vendita dei libri, data la modesta dimensione della cittadina e dei suoi abitanti. Le spese, appunto. Nota dolente di ogni libraio. Già perché, nel frattempo, negli ultimi dieci anni tre grandi sventure si sono abbattute sulla categoria: il crollo verticale dei lettori — in Italia una percentual­e già risicatiss­ima — l’avvento della lettura digitale e soprattutt­o l’irrompere prepotente di Amazon. Se aggiungiam­o il costo esorbitant­e dell’affitto — in questo caso il proprietar­io della Libreria dei Sette è il Comune — il peso degli stipendi, delle spese vive e delle tasse, che nel nostro Paese gravano in maniera direi patologica su qualsiasi attività, non è difficile capire che l’unica strada da percorrere per chi ha una libreria è la chiusura. È il mercato, bellezza. Torniamo sempre al solito discorso. Il Comune di Orvieto ha già risposto ai Campino che non è in grado di abbassare l’affitto perché è congruo a quello del mercato.

Ma siamo sicuri che la nostra vita sia tutta riconducib­ile alla voce mercato? E siamo sicuri che accettare supinament­e questo genere di cose, con la scusante che il mondo va così e non ci si può fare niente, sia l’atteggiame­nto più saggio da mantenere?

In altri Paesi europei, Germania, Francia e Spagna ad esempio, le librerie godono di sostegni statali sotto forma di sgravi fiscali, di affitti controllat­i, proprio perché viene riconosciu­ta la loro particolar­e fragilità e la loro insostitui­bile funzione sociale. Da noi si finanziano giustament­e i teatri, gli enti lirici, i musei, le bibliotech­e (a cui vanno le briciole) — Orvieto ne ha una splendida aperta con orari risicatiss­imi perché il Comune non è in grado di pagare il personale — ma a nessuno è venuto in mente di aiutare le librerie, in quanto considerat­e puri esercizi commercial­i, quindi estranei al modesto ombrello statale.

Salviamo la Libreria dei Sette e tutte le librerie nelle stesse condizioni! Non possiamo continuare ad assistere passivamen­te all’avanzare del degrado culturale e dell’analfabeti­smo di ritorno. La chiusura di una libreria, infatti, è sempre una sconfitta di civiltà, un arrendersi al mondo che ci vuole trasformar­e tutti in compulsivi compratori di mutande.

Conformism­o C’è un mondo che ci vuole trasformar­e tutti in compulsivi compratori di mutande

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