JAM SESSION SENZA TEMPO
COSÌ POPOLARE, COSÌ SOFISTICATO PERCHÉ IL JAZZ NON PERDE LA SUA VOGLIA DI RISCHIARE L’appuntamento Dal 2 novembre a Milano la seconda edizione di JazzMi celebra un genere musicale che nei suoi cento anni di vita è stato dato più volte per morto ed è rius
Il jazz, musica sofisticata e popolare al tempo stesso, ha rappresentato come pochi altri fenomeni culturali il secolo in cui è nato, il Novecento. Ma ha un ruolo nel Duemila? Qualcuno ritiene che debba ormai lasciar spazio ai giovani; in effetti basta invece dare una scorsa al programma di JazzMi per accorgersi che la «tenuta» di questo vecchietto è saldissima. Si può ben dire che ha cent’anni ma non li dimostra, grazie alla dinamica vitalità su cui si fonda.
Se il 1917 è l’anno convenzionalmente indicato come data di nascita del genere (uscì allora il primo disco nel quale si leggeva quel termine, che veniva scritto «jass»: suonava l’Original Dixieland Jass
Gli inizi Era il 1917 quando uscì il primo disco nel quale si leggeva quel termine che veniva scritto «jass»
Band), ma incisioni precedenti possono rivendicare qualche diritto di progenitura, la prima maturità di questa musica risale al 1923. È infatti l’anno in cui lasciano il segno sui solchi dei dischi a 78 giri alcuni dei maggiori protagonisti afroamericani di tutti i tempi: Jelly Roll Morton, Sidney Bechet e il «Re» fra i cornettisti di New Orleans, King Oliver, che chiama al proprio fianco un giovane rivoluzionario, Louis Armstrong.
Armstrong, dopo aver sfondato a Chicago e a New York, inizia a incidere a proprio nome nel 1925, sconvolgendo chi ha l’occasione di ascoltarlo. La società statunitense è ancora drammaticamente dianni visa fra bianchi e neri, tanto che spesso i dischi sono prodotti solo per una delle due componenti sociali: ai neri sono riservati i «race records», incisi in economia e distribuiti attraverso canali separati. Per questo molti bianchi, all’epoca, hanno una percezione distorta del jazz come musica fracassona e modaiola, «usa e getta».
Bisogna mettersi d’impegno per capire il vero spirito del jazz, ed è quello che fanno giovani bianchi, come Bix Beiderbecke e Benny Goodman, grazie ai quali questa musica si trasforma e si fa sempre più «collettiva», elemento che del resto lo ha segnato fin dalla nascita: diventa insomma la musica di un popolo. Questo popolo, oltretutto, è una miscela straordinariamente varia e ricca, comprende tanto gli anglosassoni benestanti quanto gli ex schiavi, ma anche migranti d’ogni dove (ebrei dell’Est europeo, italiani, tedeschi, irlandesi, per ci- tare solo le etnie più frequenti fra i jazzisti); senza dimenticare il sangue dei pellerossa che scorre nelle vene di molti musicisti, siano essi considerati «bianchi» oppure «neri».
Il jazz dunque cresce come musica della diversità, della trasformazione: è questo che gli permette di sopravvivere alla Grande Depressione degli Trenta, è questo che lo modifica in modo spettacolare durante la Seconda guerra mondiale. Si tratta di sviluppi all’insegna di una nuova equità sociale. Nel jazz si sperimenta, prima che in qualsiasi altra realtà, l’integrazione razziale: a metà anni Trenta il popolarissimo quartetto di Benny Goodman è formato da un ebreo, un cattolico polacco e due afroamericani (fatto che dà vita a durissime contestazioni negli Stati del Sud).
Dieci anni dopo, rivoluzionari come Charlie Parker e Dizzy Gillespie rivendicano per ciò che suonano lo status di musica d’arte, da ascoltare anziché da ballare; è una mutazione che avrà enormi ripercussioni sul concetto stesso di musica popolare, chi ha voglia di muoversi si rivolgerà a nuovi generi (derivati dal jazz, oltre che dal blues) come il rhythm & blues e il rock & roll. Il jazz viene sempre più considerato una musica «per pensare», come dimostra dai tardi anni Cinquanta l’infuocato free jazz; ma rivendica anche un proprio ruolo nella musica di massa inventando il soul, il funky e (ormai negli anni Settanta) la fusion.
Nel frattempo è esploso ben oltre i confini degli Stati Uniti; prima in Europa, poi in Giappone, in Africa, in Sudamerica, la carica vitale del jazz si adatta alle culture locali per dar vita a ibridi originali che permettono di considerarlo la prima musica davvero mondializzata, molto in anticipo rispetto alla World Music. Insomma, benché ciclicamente sia dato per morto (si cominciò a dirlo nel 1925, alle prime incisioni «eterodosse» di Armstrong), il jazz è vivo proprio perché cambia costantemente. Un’unica caratteristica resta immutabile: la voglia di rischiare, di immaginare soluzioni sonore mai sentite prima.
La trasformazione Musica della diversità: così sopravvisse alla grande depressione e alla II guerra mondiale