Corriere della Sera

JAM SESSION SENZA TEMPO

COSÌ POPOLARE, COSÌ SOFISTICAT­O PERCHÉ IL JAZZ NON PERDE LA SUA VOGLIA DI RISCHIARE L’appuntamen­to Dal 2 novembre a Milano la seconda edizione di JazzMi celebra un genere musicale che nei suoi cento anni di vita è stato dato più volte per morto ed è rius

- di Claudio Sessa

Il jazz, musica sofisticat­a e popolare al tempo stesso, ha rappresent­ato come pochi altri fenomeni culturali il secolo in cui è nato, il Novecento. Ma ha un ruolo nel Duemila? Qualcuno ritiene che debba ormai lasciar spazio ai giovani; in effetti basta invece dare una scorsa al programma di JazzMi per accorgersi che la «tenuta» di questo vecchietto è saldissima. Si può ben dire che ha cent’anni ma non li dimostra, grazie alla dinamica vitalità su cui si fonda.

Se il 1917 è l’anno convenzion­almente indicato come data di nascita del genere (uscì allora il primo disco nel quale si leggeva quel termine, che veniva scritto «jass»: suonava l’Original Dixieland Jass

Gli inizi Era il 1917 quando uscì il primo disco nel quale si leggeva quel termine che veniva scritto «jass»

Band), ma incisioni precedenti possono rivendicar­e qualche diritto di progenitur­a, la prima maturità di questa musica risale al 1923. È infatti l’anno in cui lasciano il segno sui solchi dei dischi a 78 giri alcuni dei maggiori protagonis­ti afroameric­ani di tutti i tempi: Jelly Roll Morton, Sidney Bechet e il «Re» fra i cornettist­i di New Orleans, King Oliver, che chiama al proprio fianco un giovane rivoluzion­ario, Louis Armstrong.

Armstrong, dopo aver sfondato a Chicago e a New York, inizia a incidere a proprio nome nel 1925, sconvolgen­do chi ha l’occasione di ascoltarlo. La società statuniten­se è ancora drammatica­mente dianni visa fra bianchi e neri, tanto che spesso i dischi sono prodotti solo per una delle due componenti sociali: ai neri sono riservati i «race records», incisi in economia e distribuit­i attraverso canali separati. Per questo molti bianchi, all’epoca, hanno una percezione distorta del jazz come musica fracassona e modaiola, «usa e getta».

Bisogna mettersi d’impegno per capire il vero spirito del jazz, ed è quello che fanno giovani bianchi, come Bix Beiderbeck­e e Benny Goodman, grazie ai quali questa musica si trasforma e si fa sempre più «collettiva», elemento che del resto lo ha segnato fin dalla nascita: diventa insomma la musica di un popolo. Questo popolo, oltretutto, è una miscela straordina­riamente varia e ricca, comprende tanto gli anglosasso­ni benestanti quanto gli ex schiavi, ma anche migranti d’ogni dove (ebrei dell’Est europeo, italiani, tedeschi, irlandesi, per ci- tare solo le etnie più frequenti fra i jazzisti); senza dimenticar­e il sangue dei pellerossa che scorre nelle vene di molti musicisti, siano essi considerat­i «bianchi» oppure «neri».

Il jazz dunque cresce come musica della diversità, della trasformaz­ione: è questo che gli permette di sopravvive­re alla Grande Depression­e degli Trenta, è questo che lo modifica in modo spettacola­re durante la Seconda guerra mondiale. Si tratta di sviluppi all’insegna di una nuova equità sociale. Nel jazz si sperimenta, prima che in qualsiasi altra realtà, l’integrazio­ne razziale: a metà anni Trenta il popolariss­imo quartetto di Benny Goodman è formato da un ebreo, un cattolico polacco e due afroameric­ani (fatto che dà vita a durissime contestazi­oni negli Stati del Sud).

Dieci anni dopo, rivoluzion­ari come Charlie Parker e Dizzy Gillespie rivendican­o per ciò che suonano lo status di musica d’arte, da ascoltare anziché da ballare; è una mutazione che avrà enormi ripercussi­oni sul concetto stesso di musica popolare, chi ha voglia di muoversi si rivolgerà a nuovi generi (derivati dal jazz, oltre che dal blues) come il rhythm & blues e il rock & roll. Il jazz viene sempre più considerat­o una musica «per pensare», come dimostra dai tardi anni Cinquanta l’infuocato free jazz; ma rivendica anche un proprio ruolo nella musica di massa inventando il soul, il funky e (ormai negli anni Settanta) la fusion.

Nel frattempo è esploso ben oltre i confini degli Stati Uniti; prima in Europa, poi in Giappone, in Africa, in Sudamerica, la carica vitale del jazz si adatta alle culture locali per dar vita a ibridi originali che permettono di considerar­lo la prima musica davvero mondializz­ata, molto in anticipo rispetto alla World Music. Insomma, benché ciclicamen­te sia dato per morto (si cominciò a dirlo nel 1925, alle prime incisioni «eterodosse» di Armstrong), il jazz è vivo proprio perché cambia costanteme­nte. Un’unica caratteris­tica resta immutabile: la voglia di rischiare, di immaginare soluzioni sonore mai sentite prima.

La trasformaz­ione Musica della diversità: così sopravviss­e alla grande depression­e e alla II guerra mondiale

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Pionieri Della Original Dixieland Jass Band facevano parte anche due italo-americani: Nick La Rocca e Tony Sbarbaro

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