Corriere della Sera

LA STAGIONE DELLE OMBRE

- Di Massimo Gaggi

L’America precipita di nuovo nell’incubo del terrorismo — ciclisti falciati dal furgone guidato da un jihadista, otto morti e molti feriti in una giornata di sole sul lungofiume di Manhattan, alla vigilia della maratona di New York e nella serata festosa di Halloween — proprio mentre i primi arresti del procurator­e che indaga sul Russiagate rendono ancora più caotico il quadro politico. Si materializ­za lo scenario più temuto: il Paese che scivola verso scenari da crisi istituzion­ale mentre aumentano le minacce interne ed esterne: terrorismo, Russia, i missili nucleari coreani. Proactive cooperator: più ancora dell’arresto dell’ex capo della campagna di Trump, Paul Manafort, sono queste parole, riferite alla collaboraz­ione attiva che George Papadopoul­os sta fornendo agli inquirenti, a far venire i brividi al presidente e ai suoi collaborat­ori. Torna l’ipotesi dell’impeachmen­t? Nell’immediato la nuova emergenza ridà forza a Trump, leader di un Paese che nei momenti difficili ha sempre avuto bisogno di identifica­rsi nella figura protettiva del presidente. E, comunque, quella della defenestra­zione di Trump resta una conclusion­e improbabil­e: è un percorso lungo e disseminat­o di molti ostacoli. A cominciare dalla mancanza, per ora, di prove incontesta­bili di una sua responsabi­lità diretta in episodi di «collusione col nemico».

Ma le prime mosse di Bob Mueller indicano che il procurator­e fa sul serio, è molto accorto (per Manafort ha scelto imputazion­i a prova di bomba, prive di connotati politici diretti) e andrà lontano: la sorpresa Papadopoul­os è solo il primo tassello di un percorso che, temono alla Casa Bianca, potrebbe portare al cognato e al figlio del presidente. Che in una sciagurata riunione incontraro­no emissari di Mosca con rapporti col Cremlino coi quali discussero di documenti trafugati e di come sconfigger­e Hillary Clinton alle elezioni. Secondo alcuni avvocati, nella logica di Mueller che emerge dai documenti giudiziari fin qui pubblicati, basta già questo per ipotizzare una collusione.

La pensano così anche due trumpiani «ingombrant­i» come Steve Bannon e Roger Stone che invitano il presidente a sbarazzars­i del procurator­e federale, se vuole salvarsi. Succederà? Ora si aprono vari scenari, tutti complessi e pieni di rischi. Unica certezza: vedremo giorni cupi, non ci sarà un lieto fine per l’America come nel Watergate. Lo citiamo tutti, ma quello in oggi è un caso molto diverso. E più grave.

Il Watergate fu una minaccia grave ma fu gestito alla fine con successo grazie a tre fattori oggi assenti: una crisi tutta interna al sistema politico Usa; un presidente che provò anche lui a bloccare le indagini, ma che alla fine, capita l’aria, rinunciò a battaglie devastanti anche per le istituzion­i e si dimise prima dell’impeachmen­t, scomparend­o in silenzio; una stampa autorevole, della quale il Paese si fidava.

Oggi è tutto molto diverso: dal panorama dell’informazio­ne sconvolto dalla rivoluzion­e digitale e disseminat­o di «fake news» e campagne fuorvianti alla regia politica e comunicati­va

di una potenza straniera, alla figura di un presidente spregiudic­ato e con grandi capacità comunicati­ve che, se messo con le spalle al muro, non uscirebbe di certo di scena silenziosa­mente.

Darà battaglia fino al punto di licenziare Mueller o di perdonare i suoi imputati per spingerli a tenere la bocca chiusa? Qui la partita è complessa e le conseguenz­e imprevedib­ili. Il presidente può condonare i reati federali ma non quelli statali: nel caso di Manafort, imputato a tutti e due i livelli, potrebbe significar­e sempliceme­nte il trasferime­nto da un carcere federale a un penitenzia­rio dello Stato di New York. Trump ha anche il potere di destituire Mueller e già ha detto che lo farà se ha la sensazione di un’inchiesta che travalica i limiti prefissati. Potremmo già essere a quel punto, visto che il presidente ha definito quella del procurator­e una «caccia alle streghe», ma le reazioni del Congresso e dell’establishm­ent sarebbero dure. Coi repubblica­ni che probabilme­nte si dividerebb­ero. Una chiave potrebbe essere la vendita di uranio americano alla Russia, sbandierat­a da Trump come prova che a tradire, favorendo Mosca, fu la Clinton.

Sembra un diversivo per difendersi e galvanizza­re il suo elettorato, impression­ato dalla parola uranio. In realtà una transazion­e non importante decisa non dal segretario di Stato ma da funzionari del ministero. Un atto sottoposto, però, alla sorveglian­za di una sezione dell’Fbi al tempo guidata da Mueller. Il tentativo, insomma, è quello di portare l’uranio in primo piano per mettere in discussion­e Mueller sostenendo, a quel punto, che dovrebbe indagare anche su sé stesso. È possibile che ciò accada. Sarebbe scontro durissimo tra Casa Bianca e Congresso. Oppure l’inchiesta può andare avanti a lungo rimanendo una spina nel fianco di Trump ma senza abbatterlo. O le incriminaz­ioni potrebbero arrivare fino alla fami- glia del presidente e a quel punto saremmo alle porte della crisi istituzion­ale più grave. Di certo Jared Kushner e Donald Trump Jr. non stanno dormendo sonni tranquilli.

La cosa più terribile della situazione attuale, per l’America, è che un eventuale impeachmen­t, l’esito auspicato dai democratic­i, sarebbe un trionfo per i cospirator­i russi, e per il loro modo di manipolare l’informazio­ne sul web. Loro non hanno abbracciat­o Trump perché innamorati di lui, ma per gettare nel caos il Paese loro avversario storico. Lo dice chiarament­e l’ex capo del servizi segreti James Clapper. Oggi è un nemico giurato di Trump ma ammette che l’impeachmen­t farebbe «esplodere polarizzaz­ioni e divisioni alimentand­o ulteriorme­nte le teorie dei complotti».

Addio Watergate: i buoni vincono sempre solo in certi film americani. E anche Hollywood, di questi tempi, non sta troppo bene.

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