Un albergo a tre stelle, la passeggiata Ma la gente a Bruxelles lo contesta
«Davanti allo smarrimento dei miei connazionali e dal momento che le istituzioni del mio Paese non sono in grado di funzionare...». Potrebbero essere le parole di Carles Puigdemont ieri a Bruxelles, ma sono invece di un altro Carlo: il generale Charles De Gaulle. Le pronunciò nel 1940, dopo la rotta di Dunkerque che ora il cinema ha reso di nuovo familiare.
La svastica stava per essere issata sulla Torre Eiffel, la legittimità formale del sottosegretario De Gaulle era nulla, eppure la storia fu dalla sua parte. L’altro Carlo, Puigdemont, ha invece, almeno nella sua interpretazione, tutti i titoli per dirsi presidente di un «governo legittimo». Gli manca solo un Hitler che lo aiuti.
Da qui al 21 dicembre, quando la Catalogna andrà al voto, si varierà su un unico tema: i repubblicani (da Barcellona, da Bruxelles, dal carcere, da dove potranno) a dimostrare che la convivenza dentro la Spagna è impossibile, Madrid a cercare di convincere del contrario.
Nessun partigiano in montagna, ma sfida di parole ed emozioni per «conquistare i cuori e le menti». Non solo in Catalogna in vista del voto di dicembre, ma nell’opinione pubblica globale. I mezzi non mancano. Il brevissimo autoesilio del Govern della Terza Repubblica catalana è iniziato come da manuale dell’era web con una parata di tv, satelliti, social media, streaming on line. De Gaulle, per dire, aveva solo un microfono Bbc.
Il President appariva tirato, ma è stato all’altezza del palcoscenico mondiale che si è costruito con il mistero del suo viaggio lampo. Ha parlato in quattro lingue e concesso cinque domande in modo da escludere i giornalisti spagnoli. In fondo non ha detto molto. Non ha chiarito se si presenterà o meno ai giudici o se chiederà asilo in Belgio o altrove. Infatti quando la sera è partito per l’aereoporto il circo mediatico che lo tallonava è rimasto stupefatto. Lo scopo sembra essere quello di centellinare le informazioni perché la sua Repubblica fantasma continui a «fare notizia».
Le passeggiate di ieri in cappotto scuro per una Bruxelles deserta erano photo opportunity: in plaza Luxembourg, armeggiando con una chiave, schivando i reporter, tra le bancarelle, ignorando chi gli dava del «Codardo».
Fra qualche giorno potrebbero uscire ritratti stile «la mia vita in esilio». Ci sarà un po’ di bohème con un presidente che «scende» in un hotel a tre stelle come il Chambord, passato ieri da 80 a 180 euro la notte per la presenza del supposto esule. Si scaverà nel «privato» e, certo, si parlerà anche di politica. Il mantra è «internazionalizzare il problema catalano», creare dibattito, imporlo nelle conversazioni, nei talk show e, di conseguenza, nelle agende dei governi.
Il maggior successo della sua prima apparizione da «rifugiato» è stato quello di far saltare i nervi ai colleghi castigliani. Puigdemont ha parlato a una tv belga, a TV-3 catalana, a Euronews, a Sky e alla eterna Bbc. Così alcuni reporter spagnoli offesi gli hanno gridato vergüenza, vergogna, come tifosi da stadio, come se un qualunque politico non scegliesse i suoi interlocutori. Sono parecchie le trasmissioni sulla tv spagnola a trasudare disprezzo, irrisione, come se Puigdemont avesse dovuto comportarsi da torero.
Il miglior risultato di Puigdemont sarebbe quello di far saltare i nervi a Madrid. Non tanto ai giornalisti, ma a politici e giudici. Deve dimostrare che nell’Europa democratica del XXI secolo una Regione autonoma può essere oppressa e spogliata come una colonia, la sua cultura repressa e la Giustizia violenta e al servizio della vendetta politica. Deve convincere che il voto di dicembre va considerato un nuovo referendum indipendentista.
Il suo successo dipende in gran parte da Madrid come quello di De Gaulle dipese da Hitler. Da quanto serena, legale e giustificata sarà la risposta spagnola al dibattersi frenetico del President tra esilio e sacrificio.
La strategia La sua strategia è chiara: parlare ai media stranieri per rendere internazionale la partita