Militare
ziché la “polonizzazione”, sopravvisse una percentuale più alta di ebrei». In Francia, dei 350 mila ebrei presenti prima della guerra, «solo» 77 mila furono assassinati, mentre nell’eroica Jugoslavia ne furono trucidati 60 mila su 78 mila. Nel Belgio collaborazionista il rapporto fu di 29 mila assassinati su 66 mila israeliti di prima della guerra, mentre nella vicina Olanda, governata direttamente dai tedeschi, ne vennero uccisi 100 mila su 140 mila. In sostanza «per gli ebrei fu meglio vivere sotto un regime collaborazionista». Certamente nessun Paese scelse di collaborare con i nazisti «per il bene degli ebrei». Ma «sembra che all’atto pratico per gli ebrei il collaborazionismo sia stata una scelta migliore della polonizzazione». Il collaborazionista nega che il suo sia «un gioco rigorosamente competitivo in cui una parte guadagna esattamente ciò che l’altra perde». Il collaborazionismo è odioso e umiliante, ma «entrambe le parti, nonostante l’enorme asimmetria, possono guadagnarci». In che senso? L’occupazione, scrive il filosofo, comporta una coercizione, ma coercizione non significa che l’accordo offerto alla parte sconfitta, ovvero la collaborazione, non sia migliore dell’assenza di ogni accordo: il collaborazionismo, questa specifica forma di tradimento, secondo Margalit, «è ciò che di meglio si può fare in alcune circostanze nefaste». Coloro che detengono il potere e scelgono di accettare questo genere di accordo «non dovrebbero essere considerati dei traditori ma dei patrioti che hanno il coraggio di scegliere il male minore in una situazione di estrema difficoltà». Nel corso della Seconda guerra mondiale, per gli ebrei — pur in un dramma di proporzioni immani — fu meglio trovarsi a vivere in Paesi «traditori» e collaborazionisti Raffronti La percentuale di ebrei francesi che si salvò dalla Shoah fu di gran lunga più alta rispetto a quanto avvenne per esempio in Jugoslavia
Lungimiranza Charles de Gaulle aveva il corretto senso di ciò che valeva la pena di conservare della storia secolare del suo Paese, Rivoluzione compresa come Francia e Belgio che in quelli che «non tradirono» e «non collaborarono» come la Polonia o la Jugoslavia.
Nonostante ciò, secondo Margalit, fu giusto considerare Pétain un traditore. È la «storia condivisa del popolo francese», scrive, «che Pétain ha corrotto e tradito». Il maresciallo «ha tradito con il suo tentativo di creare una Francia sradicata dalla propria memoria e dall’eredità della Rivoluzione francese». Avrebbe potuto sostenere «di aver radicato più di chiunque altro le proprie azioni in un passato condiviso, un passato che la Rivoluzione aveva distorto creando una Francia omogenea e artificiosa… In questo senso, chi poteva accusare proprio lui, tra tutti, di aver tradito il passato condiviso?». Ogni passato, tiene a specificare Margalit, è composito, è una miscela di elementi nobili e ripugnanti. Essere leali a un «passato condiviso» significa «qualcosa di più che accettare tanto i lati positivi quanto quelli negativi». Significa «impegnarsi a mantenere in vita ciò che si ritiene essere la parte migliore del proprio passato». Ed è a questo impegno che Pétain, l’eroe vittorioso della Prima guerra mondiale, è venuto meno. Se interpretiamo «il tradimento come tradimento della volontà generale della popolazione occupata», possiamo vedere nel collaborazionismo anche «il tradimento delle generazioni passate». L’idea è che i rapporti forti di una comunità in un Paese occupato vadano al di là della popolazione presente in un determinato momento storico e dovrebbero anzi includere «la comunità del passato». Un consenso contingente nella comunità che vive sotto l’occupazione potrebbe «tradire la comunità del passato». Il maresciallo Philippe Pétain (1856-1951) a Marsiglia durante il suo regime sotto l’occupazione tedesca. Capo militare molto valoroso nella Prima guerra mondiale, Pétain accettò di collaborare con gli invasori nazisti dopo la sconfitta della Francia nel maggio del 1940. Il suo governo s’insediò nella città termale di Vichy
Ma, avverte l’autore, «l’idea che in uno stato di necessità un rappresentante possa incarnare il bene comune di una collettività è un’idea rischiosa: sembra un invito rivolto a individui affetti da manie di grandezza o dal cosiddetto “complesso del Messia” ad agire in nome del popolo con la pretesa di insegnare alle persone ciò che è meglio per loro». E non è solo un problema di porte spalancate ai megalomani. Si può anche legittimamente avere paura che la «volontà generale» spiani la strada alla «democrazia totalitaria». Però, una volta prese le dovute precauzioni, conclude Margalit, «l’idea di una volontà generale in una forma o nell’altra, è indispensabile per affrontare la questione di chi ha diritto di parlare a nome di un popolo che appartiene ad un Paese militarmente occupato».
Dopodiché il giudizio finale deve tener conto di alcune importanti circostanze: «De Gaulle, che apparteneva al medesimo ambiente conservatore di Pétain, aveva il corretto senso storico di ciò che valeva la pena conservare della storia francese e, cosa ancor più importante, di ciò che avrebbe comportato il suo tradimento». Invece Pétain, oltre a un giudizio storico sbagliato, «elaborò un giudizio morale erroneo, sostenendo un regime fondato sulla distruzione dell’idea stessa di umanità». In un certo senso, Pétain «tradì anche il popolo con il quale sentiva di avere un rapporto estremamente forte, corrompendo i valori del passato condiviso». O anche solo accettando che fossero corrotti.
In merito al collaborazionismo, Margalit non si sottrae ad un giudizio sul «caso orribile» degli Judenräte, i consigli ebraici che il regime nazista istituì in molti ghetti, costretti a fornire manodopera forzata, a tenere registri di coloro che venivano mandati nei campi di sterminio e a collaborare alla deportazione. Non c’è dubbio, scrive il filosofo israeliano, che nell’Europa sottoposta all’occupazione nazista gli ebrei subissero, sia collettivamente che individualmente, una «brutale costrizione». Ciò non ha evitato che dopo la guerra il termine Judenrat tra gli ebrei divenisse sinonimo di collaborazionismo e di tradimento, ed essere stato un membro di tali consigli equivaleva — nel loro giudizio — ad esser stati collaborazionisti. Si trattava, scrive Margalit, di un giudizio «crudele, sommario e non basato sulla conoscenza dei fatti». Anche se poi «sullo scivoloso crinale del collaborazionismo non ci sono appigli a cui aggrapparsi per attutire la caduta». Il che indurrebbe a pensare che per il tradimento, anche quello «a fin di bene», ci sia poi un prezzo da pagare. Sempre.