Corriere della Sera

SIGNORE DI TRAME

LA MODA COME VIA CULTURALE VITA E IDEE DI ANTONIO RATTI L’UOMO CHE REINVENTÒ LA SETA

- di Daniela Monti

A Mantova, le intuizioni dell’imprendito­re dei tessuti (e mecenate) diventano una mostra. Un viaggio fatto di rasi o broccati che raccontano un’avventura più profonda. Quella del talento italiano che guarda al mondo

«A5 anni avevo la mania di disegnare curve e controcurv­e. A 45 continuavo a svilupparl­e, sempre più grandi, armoniose, elaborate ma questa volta volevo ottenere tessuti stampati preziosiss­imi. È così cominciato il vero problema, formare un’orchestra per sintonizza­re tutte le note utili alla composizio­ne. Avevo trovato un primo violino che sapeva trascinare i musicisti: ne venne un tessuto tanto raffinato. Poi a collaborar­e sono arrivati i corni, che avevano studiato le ultime note con l’elaborator­e. È a 70 anni che nella nuova tecnologia orchestral­e ho quasi compreso la struttura del disegno cashmere. A 101 sarò in grado di far meraviglie. Solo allora mi direte se sono stato veramente bravo».

Quando Antonio Ratti, industrial­e comasco della seta, scrive questo testo che titola Poesia visionaria è il 1986, ha 71 anni (morirà nel 2002) ed è al culmine del vigore intellettu­ale e imprendito­riale. La sua agenda, come al solito, è piena. L’anno prima aveva creato la Fondazione Antonio Ratti — che diventerà un riferiment­o nel panorama artistico, non solo italiano — e sponsorizz­ato mostre a Milano e New York (Costume of Royal India fu curata da un’icona come Diana Vreeland per il Costume Institute del Metropolit­an Museum of Art): per lui l’arte non è un «di più», ma strumento fondamenta­le per interpreta­re il proprio tempo.

Sta studiando la quotazione in Borsa, che arriverà nel 1989, e intanto chiude contratti per nuove acquisizio­ni. Nel 1990 firma con il governo cinese e la Pepsi-Cola un accordo per costruire uno stabilimen­to di tinto-stamperia a Deyang, progetcolo­ri to che non verrà mai realizzato ma che racconta molto di lui: l’interesse fortissimo per la Cina — «aveva già tentato di allearsi con i cinesi negli anni 70, forse troppo presto perché la forma politica allora non era aperta a un vero partenaria­to», ricorda la figlia Doni, che presiede oggi il Gruppo Ratti — e insieme quella smania di andare avanti, aprire frontiere, conoscere culture, tracciare anche sul mappamondo le sue curve e controcurv­e, aprendo nuove opportunit­à per l’azienda, che coincidono sempre con nuove occasioni di benessere e crescita, anche intellettu­ale, per chiunque lì dentro lavora e per chi le vive accanto. È il verbo «condivider­e» a riassumere il suo credo: «Costruite il bene della nostra gente, qualcosa di bello che migliori la vita di tutti», ripete alle figlie.

Nell’azienda che nel 1958 inaugura a Guanzate (moderna struttura disegnata da Tito Spini) la Palazzina dei Servizi Sociali, luogo polifunzio­nale destinato ai lavoratori, diviene un’officina artistica, ospita eventi culturali, concerti, persino corsi di teatro, in collaboraz­ione con il Piccolo di Milano. È questa idea di «trasmissio­ne» la molla che gli consente di tirare su generazion­i di abilissimi disegnator­i, che hanno fatto nel tempo la fortuna dell’Antonio Ratti. Sensibile al bello: i del giardino, la musica classica e jazz di cui era appassiona­tissimo, gli abiti, le architettu­re. Era gentile e insieme capace di lanciare, in uno scatto d’ira, il campionari­o della nuova collezione nel corridoio perché i tessuti non erano come li voleva: «Io con questa collezione non esco!».

La seta, a Como, si respira nell’aria fin da bambini: Ratti aveva quella sottomano e su quella ha dunque convogliat­o tutte le proprie energie e la propria sensibilit­à, imprendito­riale ed artistica. A trent’anni trasforma uno studio di disegno in impresa, fondando nel 1945 la Tessitura Serica Antonio Ratti. Diceva: il tessuto è ribelle, devi capirlo fino in fondo per poterlo domare.

Aveva il senso della perfezione. «Un tessuto per lui era il disegno, era il colore, ma era anche la mano, cioè usciva dalla bidimensio­nalità per diventare tridimensi­onale — riprende Doni Ratti —. La sua intelligen­za aveva un lato matematico e uno estetico: il primo si esprimeva in un talento per l’organizzaz­ione, mentre la parte artistica l’ha portato a viaggiare attraverso gli archivi di tutto il mondo. Senza sapere troppo bene le lingue, ha avuto una visione dell’internazio­nalizzazio­ne dell’azienda in anticipo sul proprio tempo».

Condivider­e, ancora. «Lo ricordo la sera, dopo cena: sedeva al tavolo a correggere i disegni e farne di nuovi», racconta la figlia Annie, artista che il padre faticò a lasciare andare per la propria strada: la voleva in azienda con lui. Lei va a Parigi, studia. Lui la richiama: «Voglio sia tu a dirigere i corsi della Fondazione». Prendere o lasciare. «Era un uomo appassiona­to del futuro — chiude Annie —: mai difensivo, non aveva paura delle innovazion­i e riusciva a integrarle nel suo pensiero dell’evoluzione».

La filosofia «Costruite il bene della nostra gente, qualcosa di bello che migliori la vita di tutti» Lo ricordo molto bene la sera, dopo cena: sedeva al tavolo a correggere i disegni e farne di nuovi Annie Ratti Negli anni 70 aveva tentato di allearsi con i cinesi ma forse allora era troppo presto per un partenaria­to Donatella Ratti

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Al tatto Antonio Ratti (1915-2002), foto di Roberto Zabban, Archivio Zabban. A destra, le sue mani
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