Perché ci serve ancora la memoria
Aleida e Jan Assmann, premi Balzan 2017: la tecnologia non ha esaurito il ruolo del ricordo
Figlia di un pastore luterano e docente di Letteratura a Costanza, lei; egittologo che ha insegnato a Parigi, Heidelberg e Chicago, lui. Aleida e Jan Assmann sono moglie e marito e insieme hanno ricevuto il Premio Balzan «per le loro ricerche sulla memoria collettiva».
L’avvento della società globale, l’esplosione dell’universo digitale e la crescita demografica stanno mettendo in crisi la trasmissione del sapere umanistico e quello delle singole esperienze umane. L’individuo progressivamente delega i ricordi a memorizzatori esterni smarrendo la compartecipazione con il passato.
Sono temi affrontati dagli Assmann, ai quali abbiamo chiesto cosa intendano per «cultural and communicative memory».
«Sia la memoria comunicativa che quella culturale sono varianti della memoria collettiva, ovvero qualcosa che è condiviso da un gruppo. La memoria comunicativa è quella che utilizziamo per la comunicazione con qualcuno di significativo; il suo intervallo di tempo si estende a tre generazioni, 80-100 anni, e cambia nel tempo. La memoria culturale è a lungo termine e delinea l’identità di un gruppo più vasto. È costituita da forme simboliche che si esprimono con diversi mezzi di comunicazione: testi, immagini, miti, riti, danze, luoghi, paesaggi..., il suo intervallo di tempo può arrivare a tremila anni e non cambia bruscamente con le generazioni».
I database e gli archivi digitali di oggi rappresentano l’esito di quella idea di Memoria universale sognata nell’Umanesimo?
«L’Umanesimo è stato un momento in cui gli studiosi erano alla ricerca di conoscenze universali e sistemi di segni capaci di trasmettere le informazioni tra culture. Per questo hanno costruito sistemi di memoria universale. Oggi con gli archivi digitali abbiamo la capacità tecnologica di ren- dere realtà il loro sogno. Ma non dobbiamo trascurare le differenze tra il Seicento e il 2017: oggi abbiamo la tecnologia ma non siamo più in un discorso di universalità e unità della conoscenza. Il fatto che Google sia accessibile da tutte le regioni del mondo non lo rende una memoria universale dell’umanità. Gli articoli di Wikipedia scritti in cinese differiscono notevolmente da quelli scritti in inglese, che differiscono da quelli scritti in tedesco».
Delegare la memoria solo a Big data e archivi digitali non è un modo per affrancare l’individuo dal carico di ricordare?
«Perché ricordare dovrebbe essere un peso personale? Ricordare è ciò per cui i nostri cervelli sono fatti e se non possono più eseguire questo compito ci troviamo di fronte a gravi problemi. Scaricare la nostra memoria dal carico psichico o cognitivo è altrettanto necessario, ovviamente, ed è la ragione per cui abbiamo anche bisogno di dimenticare. È vero, però, che oggi siamo dotati di smartphone che ci portano ogni tipo di informazione a portata di mano. Perché dovremmo ancora ricordare se siamo in grado di spostare tutte le informazioni nella memoria esterna? Perché dobbiamo ricordare il nostro pin, i nostri nomi, la nostra storia e una rete di relazioni personali, per non parlare delle nostre abilità professionali e dell’educazione. Tutto questo costituisce la nostra identità. Dobbiamo inoltre ricordare molto per essere in grado di cercare informazioni. Quindi il cervello viene esteso dalla tecnologia».
Delegando la memoria, si sono poi dovute creare delle date (i cosiddetti «Giorni della memoria ...») per ricordare. È il sintomo di una patologia?
«Esternalizzare non significa delegare. I simboli esterni di memoria possono funzionare solo se sono “ricordati”, ovvero recuperati, riesaminati, reinseriti e rivalutati dai singoli individui. I Giorni della memoria sono necessari per creare e mantenere una memoria collettiva. Che siano una cosa buona o cattiva dipende dalle date selezionate e dalla natura delle emozioni che vengono mobilitate all’interno del gruppo».
È giusto il diritto all’oblio e chi può decidere che cosa e quando dimenticare?
«Nel maggio 2004 la Corte europea ha approvato una legge sul diritto all’oblio. La ragione di questa modifica è l’ecologia del ricordare e del dimenticare su Internet. Internet non dimentica niente. In queste circostanze le persone che soffrono per informazioni private che sono accessibili al pubblico e possono danneggiare la loro reputazione hanno ora il diritto di disattivare queste informazioni».
La nostra civiltà è la prima che può trasmettere tutte le informazioni e gli oggetti di vita quotidiana alle generazioni future: è una prospettiva inquietante?
«È un punto molto importante! Memoria significa scegliere rispetto a ciò che si adatta a un’identità. Non raccogliere ciò che è inutile o irrilevante, perché lo spazio di memoria è radicalmente limitato sebbene le banche di memoria esterne siano spaziose e possano essere infinitamente estese. Ricordare è ridurre, concentrarsi su ciò che è importante e pertinente. Questo processo di selezione deve essere continuamente aggiornato. Non erediteremo la selezione delle generazioni precedenti senza modificarla e riconfigurarla per tutto il tempo».
L’Europa può davvero essere, come da titolo di una vostra lezione, «una comunità di memoria»?
«L’Europa può diventare una comunità di memoria solo se gli Stati membri iniziano a creare una memoria condivisa e dialogica. In questa prospettiva l’Europa ha molto da ricordare: come creare la pace dopo due guerre mondiali e trasformare i nemici mortali in vicini amichevoli e collaborativi, come trasformare le dittature in democrazie, come creare una cultura di memoria autocritica e come rispettare i diritti umani. Tale memoria non è solo rivolta verso il passato; potrebbe servire come orientamento condiviso per il futuro».