Anche in America irrompe l’era postliberale
epidemia di disperazione che ha colpito gli Stati Uniti, un tempo terra di sogni seducenti e ottimismo sconfinato, si è materializzata anche nelle statistiche, all’inizio del nuovo secolo. Fino al 1998 il tasso di mortalità tra i bianchi americani aveva registrato cali continui, come negli altri Paesi industrializzati. Ma da allora in poi negli Usa ha ricominciato a salire di mezzo punto l’anno. Un’inversione che nessun’altra società ricca ha sperimentato.
Comincia da qui — dagli incubi di una nazione apparentemente prossima alla piena occupazione ma in realtà col tessuto sociale strappato dall’enorme abuso di oppiacei, dai 52 mila morti per overdose nel 2015, dalle masse di giovani che entrano ed escono di continuo dai penitenziari, dal deperimento dell’istruzione e della cultura dell’America profonda — un angoscioso viaggio attraverso il processo di decomposizione della classe operaia bianca.
Un viaggio che J.D. Vance ha trasformato in racconto epico, quello di Hillbilly Elegy, partendo dalla storia della sua famiglia. E che, invece, Mattia Ferraresi utilizza, trasformandolo in saggio, per spiegare le ragioni del malessere profondo del Paese fino a ieri più ammirato e sognato del Pianeta: una ricerca delle cause dell’onda di rabbia e populismo che ha portato Trump alla Casa Bianca e che continua a sostenerlo nonostante il pessimo bilancio (provvisorio) di un presidente dallo stile di governo caotico e sconcertate.
Il corrispondente del «Foglio» dagli Stati Uniti era stato il primo giornalista italiano a cercare di spiegare in un libro, nella primavera del 2016, la fenomenologia di un Trump che allora sembrava ancora lontano dalla Casa Bianca. In questo nuovo saggio, Il secolo greve (Marsilio, pp. 175, 16), Ferraresi va oltre la figura di The Donald, cercando risposte nella società americana e in un deterioramento dell’economia che, dietro la maschera della crescita del reddito nazionale e degli occupati, è malata di polarizzazione: crescita enorme delle diseguaglianze e una demolizione dei ceti medi che corrode le strutture portanti della democrazia americana.
A questo punto lo sguardo si sposta sulla perdita di fiducia nella democrazia liberale che si manifesta non solo negli Usa, ma anche nel resto dell’Occidente. Un fenomeno previsto da Fareed Zakaria in un articolo sull’ascesa della «democrazia illiberale» pubblicato vent’anni fa dalla rivista «Foreign Affairs» e divenuto galoppante dal 2005, con l’onda dei populismi e dei movimenti nazionalisti. L’autore cita ricerche dalle quali emerge che a non considerare più indispensabili i valori democratici sono soprattutto molti giovani sulle due sponde dell’Atlantico. Negli Usa, in particolare, mentre i nati prima dell Seconda guerra mondiale considerano sacra la democrazia liberale, solo il 30 per centro dei Millennials giudica essenziale vivere in una democrazia.
È la definitiva sconfessione della «fine della storia», la previsione di Francis Fukuyama la cui logica idealista non prendeva nemmeno in considerazione una possibilità di regressione, dato che per lui la civiltà umana, benché frammentata, tende inevitabilmente verso un comune destino liberale. E se Trump, che certo non esce bene da questo libro, è in qualche modo il frutto naturale di tempi divenuti cupi, Ferraresi mette sul banco degli imputati Barack Obama: presentatosi all’America come un «messia laico» che annunciava un mondo postrazziale e postideologico, l’ha lasciata in un mondo postliberale. Credendo però sempre, come Fukuyama, nella storia come progressione inevitabile, Obama il giorno dell’elezione di Trump ha convocato i suoi collaboratori in lacrime e li ha confortati: «Non è l’apocalisse, verranno tempi migliori».