Una scrittura ispirata dal ricordo dei maestri
Quando Vittorio Sgarbi scrive, il suo racconto è diverso dalla passione polemica degli interventi televisivi, nelle sue pagine c’è altro: scrittura densa di riferimenti, continua tensione per la scoperta. Ogni nuovo incontro con le opere è sempre scelta di far capire, di proporre prospettive nuove. E questa scrittura ha una tradizione, una storia, e si spiega anche nel segno del ricordo. «Eravamo ragazzi all’Università di Bologna, studenti nell’aula di storia dell’arte che era stata di Roberto Longhi, freschi allievi di Francesco Arcangeli», scrive Sgarbi e, ancora, a proposito della «vita senza idillio» di Antonio Fontanesi: «Un poeta lirico del fiume, un temperamento tormentato e disperato. Mi chiedo come mai il mio maestro Francesco Arcangeli, bolognese di indole malinconica, non ce ne abbia mai parlato in questi termini nelle sue fluviali e appassionanti lezioni, mentre ci portava nei vortici travolgenti di William Turner, o nei boschi inestricabili di John Constable». Dunque la lezione di un grande critico che riscopriva nell’Informale la modernità di Giorgio Morandi, ma insieme anche l’acribia di Carlo Volpe, storico dell’arte raffinato. Queste le origini di Sgarbi, la sua storia, ma, al maestro, si aggiunge il dialogo continuo con Roberto Longhi. Dunque da una parte i luminosi trionfi di Giovan Battista Tiepolo, dall’altra il realismo — borghese — di Giandomenico, oppure la fotografia di Wilhelm Van Gloeden intesa come riscoperta del realismo caravaggesco, ma senza dimenticare che i primi studi sul pittore lombardo sono di Lionello Venturi, Matteo Marangoni e Hermann Voss. Insomma la scrittura felice, appassionata di Sgarbi nasce da una storia — alta —, quella dei primi allievi di Roberto Longhi a Bologna.
Il libro è denso di scoperte, di scelte, anche ricordi di importanti acquisizioni per la collezione di famiglia, e poi ecco Giovan Battista Piazzetta evocatore della pittura del Seicento, Giacomo Quarenghi che esporta Palladio in Russia, Antonio Canova scultore del sublime, Medardo Rosso che, con le vibranti trasparenze dei bozzetti in cera, stimola Rodin. Nuove attribuzioni, nuove letture ma, insieme, una consapevolezza: scrivere è invenzione, scrivere è sempre racconto, ma, per narrare, si deve conoscere la storia. Lo dice Longhi, «Bellotto è un pittore della realtà» e Sgarbi ci fa capire: Canaletto e Bellotto usano la camera chiara, la prospettiva, ma mai il primo avrebbe dipinto, come fa Bellotto a Dresda, una chiesa, la Kreuzchiche, distrutta. Insomma la chiave di lettura della storia dell’arte è da una parte il realismo, dall’altra il — sublime — del classico. Vivono ancora, nel critico ferrarese, le illuminanti lezioni dei maestri nelle aule della amata Bologna.