Leopardi, giovane favoloso e vitale Il nostro migliore compagno di scuola
Non fu pessimista: inseguì sempre la felicità senza mai raggiungerla La sua sensualità spazza via l’ossessione della guerra e della conquista
Giacomo Leopardi nato a Recanati — con strade serrate da palazzi che sembrano piste da snowboard — nel 1798, dopo soli nove anni dalla presa della Bastiglia, dunque figlio del cosiddetto materialismo, non credette mai nella palingenesi dell’umanità. Egli non fu un pessimista; il giovane favoloso, per chiamarlo come volle Anna Maria Ortese, fu un eudemonista: un poeta e filosofo morale che rincorse per tutta la vita la felicità senza tuttavia raggiungerla.
Seppure scrisse nel 1818, in dieci-dodici giorni, la canzone
All’Italia («O patria mia, vedo le mura e gli archi/ E le colonne e i simulacri e l’erme/ Torri degli avi nostri,/ Ma la gloria non vedo/ (… )Combatterò, procomberò sol io./ Dammi, o ciel, che sia foco/ Agl’italici petti il sangue mio…») il suo spirito guerriero sa di cartapesta e spade e scudi di latta per una tarda adolescenza che, proprio in quello stesso anno, lo stimatissimo Pietro Giordani, lo spingerà a lasciare definitivamente, assieme alle sudate carte, per spingersi oltre: cioè verso il mare della poesia. Non a caso nel settembre dell’anno successivo comporrà L’infinito. Tranciando le vulgate critiche e scolastiche sul dualismo filosofico- pessimistico che ha sempre opposto i piccoli ai grandi Idilli (chiamati anche «Canti pisano-recanatesi», che debuttano alla fine del primo ventennio del secolo in questione), L’infinito non solo è poesia spaziale e visiva; essa contiene nel «naufragar m’è dolce in questo mare» una sensualità fuori dal genere che la proietta nel ventre femmineo e amniotico dove Leopardi spazza via l’ossessione della guerra, del primato individuale, dell’orgoglio della conquista; e persino il mito della Patria che aveva sostenuto l’amatissimo Alfieri e il soldato-poeta Foscolo. Da questo momento il «ranocchio» marchigiano spezzerà per sempre pure le dimensioni altere della poesia. La sua vitalità è talmente snodata, esuberante, costantemente protesa alla rincorsa della vita, che i Canti non saranno che un corpo a corpo d’amore nel quale i settenari, i novenari, gli endecasillabi forgeranno sì versi, ma altrettante stanze di un amore (in realtà mai tradito) nei confronti della Natura.
C’è molto pudore a citare le opere di Giacomo. Quando si aprono ci si accorge che sono scrigni luminosi. Il Leopardi «filologo» fu già adolescente il più quotato in Europa. Si appropria e sviluppa come un botanico le radici delle lingue; il prosatore di quel diario sterminato che è lo Zibaldone di pensieri pare essere un’officina nella quale si abbozzano materiali sterminati: poesie, traduzioni dall’inglese, dal francese, saldature tra pensieri trascorsi e progetti che verranno. Lo Zibaldone è il confessionale laico che in realtà non trova contenitori in grado di ospitarlo.
Leopardi è netto quando afferma che la poesia di «immaginazione», dunque del «sentimento» è moderna; mentre la poesia di «fantasia» spetta agli «antichi. Eppure nelle Operette morali, che concluderà negli anni Venti dell’Ottocento, raggiungendo la terza edizione negli anni Trenta, giocando sui dialoghi «filosofici» e ironici (l’ironia è grande talento dell’uomo affetto da ogni male che Natura potesse partorire) proclama la vittoria della poesia di fantasia su quella dell’immaginazione. È questa, ci piace chiamarla, la perfidia di un talento che abita nella nostra vita. Basti pensare alle «visioni» nel Dialogo della Natura e di un islandese o alla percezione altrettanto visionaria del Coro dei morti («Diamine! Chi ha insegnato la musica a questi morti, che cantano di mezza notte come galli? » ) in Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie.
Nel narrativamente spregiudicato Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, dove affronta con apparente ingenuità la questione del «tedio» e dell’eterno divenire (caro a Giambattista Vico e in futuro a Friedrich Nietzsche) Giacomo Leopardi, attraversando la vita della luna, del pastore, della prole, insomma la vita che se ne va per i «sempiterni calli», non fa che fondare un romanzo estremo alla portata di colti e incolti. Dopo di lui se ne scriveranno altri due: La pioggia nel pineto di d’Annunzio (attraversamento della vita interiore e sensuale) e Desolazione del povero poeta sentimentale di Sergio Corazzini, del 1906 (già nel sentimento dell’infan- zia si raggiunge la morte).
Nel satirico Paralipomeni della Bratacomiomachia si diverte a trasformare i «progressisti» in topi e i «conservatori» in rane; ecco perché quando è a Torre del Greco a mangiare gelati in compagnia del suo adorato amico Antonio Ranieri, al cospetto del Vesuvio, non ha nessuna fiducia socialisteggiante (come provarono a suggerire Walter Binni e Renato Luperini) scrivendo La ginestra. Egli non fa altro che tributare omaggio, stavolta in maniera plastica e pittorica, alla forza feroce e ingovernabile della Natura. Ingestibile (anche) perché paradossale. Infatti là, in territorio desertico, cresce la «lenta ginestra». Un miracolo più che di resistenza di autofecondazione. Leopardi è un panico. E resta il migliore compagno di scuola che il destino potesse assegnarci.
Filosofo Figlio del materialismo, non credette mai nella palingenesi dell’umanità