Elogio dell’ubbidienza, anche in un mondo rimasto senza autorità
Non sappiamo più ubbidire; o abbiamo smesso di farlo. Da tantissimo tempo. Chi, se non i monaci e le monache nei conventi, i soldati nei campi di battaglia, ancora ubbidisce? Chi continua a prendere in considerazione questa parola arcigna — fonte di sofferenze e privazioni, ma anche di una segreta felicità — che nel Dizionario della Lingua Italiana di Devoto e Oli è descritta come: «Sottomissione alla volontà altrui, sia come atto momentaneo che come comportamento abituale»? Nei luoghi deputati dell’ubbidienza, e fondamentali nella formazione di ogni essere umano, chi è che — per abitudine o per una propria libera scelta momentanea — decide di sottomettersi alla volontà altrui? Nella famiglia, nella scuola, nei partiti politici è un concetto ancora praticato l’ubbidienza, o è il simulacro di un mondo superato e schernito? No, l’ubbidienza è sparita quasi del tutto. Ha trovato asilo nelle sette, trasformandosi da cosa santa e bella, in strumento di violenza e sopruso; si è infilata nel tunnel cieco delle ideologie perverse; si è vestita di divise lustre e di cappucci neri; è al servizio di desideri ottusi. E noi, di conseguenza, dubitiamo dell’ubbidienza, esitiamo a riconoscerla, pensiamo di poter vivere facendone a meno. Il primo «ubbidiente» senza giustificazioni o perché fu, come si sa, Abramo. Viveva nella città di Ur, scrutando il percorso delle stelle. Un giorno, Dio lo chiamò e gli disse: «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che ti indicherò». Non gli disse: dove, né gli spiegò il perché. Gli disse: esci. E Abramo uscì. Così dovrebbe capitare nella nostra infanzia: in quel momento limpido e insieme oscuro. Qualcuno ci dice di fare e noi facciamo; ci dice di andare e noi andiamo. Senza spiegazioni. Dopo, negli anni, qualcosa insorge. Una parte di noi stessi si ribella, non riconosce il padre e la madre, vuole confrontarsi con delle ragioni, non riconosce l’autorità degli insegnanti, rinnega l’autorità in senso assoluto. Finalmente, viene un tempo in cui l’autorità alla quale decidiamo di sottometterci, la scegliamo senza costrizioni. E questo, oggi, non è semplice per niente. Perché, se è vero che l’ubbidienza è sparita, è altrettanto vero che l’autorità è sparita. Dopo il Sessantotto e la sua irruzione nel privato, nella politica e in qualsiasi campo in cui si intravvedesse una autorità costituita, il senso profondo dell’autorità si è man mano smarrito, è sparito e, come è accaduto per l’ubbidienza, ha trovato asilo chissà dove. Così, lo leggiamo quotidianamente, i figli non ubbidiscono più ai genitori; i ragazzi non ubbidiscono ai professori, semmai li sbeffeggiano, pretendono di essere loro a stabilire la didattica e non di rado trasformano le aule in balere o alcove; nei partiti politici le regole non si rispettano. Del resto, per quale motivo dovremmo ubbidire a delle regole se, per esempio nei partiti, (ammesso che esistano e non siano in gran parte una accozzaglia di sprovveduti e ignoranti), vediamo che le regole alle quali bisognerebbe ubbidire una volta accettate e stabilite, valgono solo se si vince, mentre una volta che si è perso chi ha perso dice: non gioco più? Perché dovremmo ubbidire ai genitori che ci mettono in guardia contro la droga se loro, per primi, si fanno gioiosamente le canne? Perché dovremmo rispettare le regole della buona educazione se la maleducazione ci viene proposta come modello? Perché dovremmo ubbidire alla Chiesa che ci raccomanda di essere casti e puri, se la Chiesa è sfregiata dagli scandali sessuali e dalla corruzione? San Basilio, il fondatore del monachesimo, ammonisce nelle sue Regole a considerare nell’ubbidienza, quali sono i comanda-menti del Signore: «Se un ordine corrompe o contamina il comandamento, allora è il momento di dire: è meglio ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini». Altrimenti è consigliabile ubbidire. Per chi è credente e chi non lo è.