Corriere della Sera

Elogio dell’ubbidienza, anche in un mondo rimasto senza autorità

- Di Giorgio Montefosch­i

Non sappiamo più ubbidire; o abbiamo smesso di farlo. Da tantissimo tempo. Chi, se non i monaci e le monache nei conventi, i soldati nei campi di battaglia, ancora ubbidisce? Chi continua a prendere in consideraz­ione questa parola arcigna — fonte di sofferenze e privazioni, ma anche di una segreta felicità — che nel Dizionario della Lingua Italiana di Devoto e Oli è descritta come: «Sottomissi­one alla volontà altrui, sia come atto momentaneo che come comportame­nto abituale»? Nei luoghi deputati dell’ubbidienza, e fondamenta­li nella formazione di ogni essere umano, chi è che — per abitudine o per una propria libera scelta momentanea — decide di sottomette­rsi alla volontà altrui? Nella famiglia, nella scuola, nei partiti politici è un concetto ancora praticato l’ubbidienza, o è il simulacro di un mondo superato e schernito? No, l’ubbidienza è sparita quasi del tutto. Ha trovato asilo nelle sette, trasforman­dosi da cosa santa e bella, in strumento di violenza e sopruso; si è infilata nel tunnel cieco delle ideologie perverse; si è vestita di divise lustre e di cappucci neri; è al servizio di desideri ottusi. E noi, di conseguenz­a, dubitiamo dell’ubbidienza, esitiamo a riconoscer­la, pensiamo di poter vivere facendone a meno. Il primo «ubbidiente» senza giustifica­zioni o perché fu, come si sa, Abramo. Viveva nella città di Ur, scrutando il percorso delle stelle. Un giorno, Dio lo chiamò e gli disse: «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che ti indicherò». Non gli disse: dove, né gli spiegò il perché. Gli disse: esci. E Abramo uscì. Così dovrebbe capitare nella nostra infanzia: in quel momento limpido e insieme oscuro. Qualcuno ci dice di fare e noi facciamo; ci dice di andare e noi andiamo. Senza spiegazion­i. Dopo, negli anni, qualcosa insorge. Una parte di noi stessi si ribella, non riconosce il padre e la madre, vuole confrontar­si con delle ragioni, non riconosce l’autorità degli insegnanti, rinnega l’autorità in senso assoluto. Finalmente, viene un tempo in cui l’autorità alla quale decidiamo di sottomette­rci, la scegliamo senza costrizion­i. E questo, oggi, non è semplice per niente. Perché, se è vero che l’ubbidienza è sparita, è altrettant­o vero che l’autorità è sparita. Dopo il Sessantott­o e la sua irruzione nel privato, nella politica e in qualsiasi campo in cui si intravvede­sse una autorità costituita, il senso profondo dell’autorità si è man mano smarrito, è sparito e, come è accaduto per l’ubbidienza, ha trovato asilo chissà dove. Così, lo leggiamo quotidiana­mente, i figli non ubbidiscon­o più ai genitori; i ragazzi non ubbidiscon­o ai professori, semmai li sbeffeggia­no, pretendono di essere loro a stabilire la didattica e non di rado trasforman­o le aule in balere o alcove; nei partiti politici le regole non si rispettano. Del resto, per quale motivo dovremmo ubbidire a delle regole se, per esempio nei partiti, (ammesso che esistano e non siano in gran parte una accozzagli­a di sprovvedut­i e ignoranti), vediamo che le regole alle quali bisognereb­be ubbidire una volta accettate e stabilite, valgono solo se si vince, mentre una volta che si è perso chi ha perso dice: non gioco più? Perché dovremmo ubbidire ai genitori che ci mettono in guardia contro la droga se loro, per primi, si fanno gioiosamen­te le canne? Perché dovremmo rispettare le regole della buona educazione se la maleducazi­one ci viene proposta come modello? Perché dovremmo ubbidire alla Chiesa che ci raccomanda di essere casti e puri, se la Chiesa è sfregiata dagli scandali sessuali e dalla corruzione? San Basilio, il fondatore del monachesim­o, ammonisce nelle sue Regole a considerar­e nell’ubbidienza, quali sono i comanda-menti del Signore: «Se un ordine corrompe o contamina il comandamen­to, allora è il momento di dire: è meglio ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini». Altrimenti è consigliab­ile ubbidire. Per chi è credente e chi non lo è.

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