GLI INGANNI (SVELATI) DEI POLITICI
Promesse elettorali
Nella cura dei tanti interessi particolari e territoriali siamo imbattibili. La discussione appena terminata in Senato sulla legge di Bilancio (ora tocca alla Camera) ha dimostrato ancora una volta che la discussione sull’opportunità di introdurre un vincolo di mandato per deputati e senatori — espressamente vietato dall’articolo 67 della Costituzione — è del tutto oziosa. Certo, se ci fosse quel vincolo non avremmo assistito finora, in questa legislatura, alla transumanza di 343 parlamentari da un gruppo all’altro. E spesso in più di uno. Ma la marea di piccoli provvedimenti approvati al Senato, alcuni assolutamente necessari per carità, a favore di questo o quel gruppo d’interesse o delle comunità di origine o riferimento degli eletti, ha confermato ancora una volta che i vincoli esistono. Ed è naturale che sia così, che si dia ascolto alle tante richieste di categorie e territori. Accade anche in sistemi più evoluti del nostro. Ogni passaggio si misura anche in voti e la campagna elettorale è già cominciata. Ma non ci rassegniamo al fatto che non vi sia un’analoga determinazione sulle questioni più importanti per il futuro del Paese: debito, spesa pubblica, investimenti. Se le ragioni dei giovani — uno degli obiettivi dichiarati della manovra — fossero difese con la stessa pervicacia con la quale si infila un comma a favore della copertura dei costi del Carnevale fino al 2020 o per dichiarare Bolzano sede disagiata, il livello delle scelte sarebbe di tutt’altro tenore.
I l vincolo che manca è proprio questo. Un vincolo di responsabilità. Non c’è la consapevolezza dell’urgenza di affrontare i grandi temi da cui dipende il futuro del Paese. Si rinvia, si rimuove. E non ci resta che apprezzare, di conseguenza, lo spirito dei costituenti quando scrissero il contestato articolo 67 sulla rappresentanza generale dell’intera nazione. Se poi guardiamo alla composizione della manovra appena licenziata dal Senato — che sarà ovviamente emendata dalla Camera — ci accorgiamo della semplice verità dei numeri. Circa l’80 per cento degli impieghi serve a disinnescare le cosiddette clausole di salvaguardia a garanzia di spese già fatte o correnti; il 15 per cento va agli statali, meno del 5 per cento allo sviluppo. Dal lato delle risorse, oltre il 55 per cento è in disavanzo, e dunque fa salire il debito; il 25 per cento in tasse o recupero evasione fiscale e meno del 20 per cento è in taglio delle spese. Finito.
Quel vincolo di responsabilità dovrebbe essere richiesto dai cittadini alle forze politiche anche nella prossima campagna elettorale. E forse, se ci possiamo permettere, sarebbe opportuno che se ne facesse interprete — magari in occasione del discorso di fine anno — lo stesso capo dello Stato. Inutile promettere quello che non si può mantenere. Pericoloso evadere dalla realtà, rimuovendo la forza delle cose e l’amarezza stringente di un elevato indebitamento. Basta ingannare gli elettori illudendoli che vi sia una torta da dividere. Non c’è più da tempo. E non è detto che proposte serie, circostanziate e credibili, non raccolgano più consenso dei giochi
di prestigio programmatici.
La proposta dibattuta nel centrodestra della flat tax, una tassa piatta, è suggestiva, popolare. Non sappiamo però quale sia l’aliquota unica, né le necessarie coperture, le deduzioni, l’ampiezza della cosiddetta «no tax area». Salvini insiste sul 15 per cento. Irrealistico. Forse sarebbe il caso di spiegare agli elettori l’estrema pericolosità di un taglio immediato delle tasse che aprirebbe un catastrofico buco di bilancio. Ed è assai probabile che il primo atto di un nuovo governo dopo le elezioni sia una manovra correttiva. Altro che flat tax. Inutile poi parlare di nuove clausole di salvaguardia che si aggiungerebbero a quelle che non riusciamo a disinnescare da anni. Ha scritto opportunamente Renato Brunetta sul «Foglio» che senza riduzione del debito non vi è sovranità fiscale. Discorso assai diverso, dunque, se a un’ipotetica aliquota unica si dovesse arrivare con gradualità, in cinque anni, avendo tagliato prima la spesa pubblica per realizzare un’adeguata provvista. La proposta di Nicola Rossi e dell’Istituto Bruno Leoni di una flat tax al 25 per cento ha come presupposto irrinunciabile la neutralità dell’effetto sul bilancio pubblico. L’idea, che affascina Forza Italia, di una moneta parallela o fiscale poi, con cui lo Stato potrebbe pagare per esempio i fornitori, è ugualmente attraente. Ma temeraria perché equivale a emettere dei pagherò, cioè a fare altro debito. Ultimamente non se ne parla più. È stata accantonata definitivamente? Un altro azzardo è la proposta di Matteo Renzi, contenuta nel suo libro «Avanti», di spingere il deficit al limite del 3 per cento per abbattere le tasse, non rispettando il criticato fiscal compact. Si sottovalutano, anche in questo caso, le reazioni europee e dei mercati di fronte a un taglio delle tasse che verrebbe realizzato in deficit, anziché riducendo la spesa pubblica. E intanto l’ombrello monetario di Draghi, possibile grazie al famigerato fiscal compact, si sta chiudendo.
I Cinquestelle promettono il reddito di cittadinanza a nove milioni di persone. Si assicura l’integrazione del reddito per arrivare a 780 euro per individuo, 1100 per una coppia, 1300 con un figlio e via a salire. Nei limiti della soglia di rischio povertà Eurostat. Costo 17 miliardi, di cui 1,5 per i centri dell’impiego che, nell’idea pentastellata al limite dell’utopia, dovrebbero essere creatori di nuove imprese fra gli stessi disoccupati. Una proposta di lavoro a più di 80 chilometri da casa potrebbe essere rifiutata senza perdere il reddito di cittadinanza. Dove trovare tutti questi soldi? Tagliando 20 voci di spesa pubblica, dagli enti inutili, ai sussidi alle imprese, alle spese militari. Prima i tagli e poi il reddito, naturalmente? No, dicono i Cinquestelle, li faremo insieme. Impossibile. Non è il caso di accertarsi preliminarmente che i tagli siano effettivi? Nella legge di Bilancio 2018, con uno «sforzo titanico», si promette di tagliare le spese di soli 3,5 miliardi. Sogni e realtà.
Priorità Non c’è consapevolezza dell’urgenza di affrontare i grandi temi da cui dipende il futuro del Paese
Intenzioni Non resta che apprezzare lo spirito dei costituenti nell’articolo 67 sulla rappresentanza generale dell’intera nazione