Corriere della Sera

Nelle gallerie di Manhattan

Times Square, 480 mila pedoni al giorno

- di Massimo Gaggi

Le luci, i sogni, le viscere. Delle tre città in una che E.B. White raccontò in Here is New York, nessuna manca all’appello, in quelle poche decine di metri che uniscono Times Square al Port Authority Bus Terminal. Nessuna mancava ieri mattina, quando il «pacifico inizio di settimana lavorativa» — parole del New York Times —è stato «mandato in frantumi» da un’esplosione.

Non mancava la New York «di chi è nato qui, la dà per scontata, ne accetta l’enormità e le turbolenze come naturali e inevitabil­i»; non quella dei pendolari; e neppure quella «di chi è nato altrove, e arriva qui in cerca di qualcosa», trasforman­dola in una meta, e contribuen­do a renderla una maestosa armonia di sogni e delusioni individual­i.

Colpire quell’angolo di New York significa tentare di scalfire tutto questo: un luogo dove immaginari­o e quotidiani­tà si intreccian­o, inestricab­ili.

Quello di Times Square era il «peggior quartiere della città», negli anni 60: degrado, stupefacen­ti, criminalit­à, cinema che — persino nelle locandine inquadrate nelle scene di Taxi Driver o di Un uomo da marciapied­e — offrivano film per adulti, e poco più. Meno di trent’anni dopo, la piazza che piazza non è si era già trasformat­a, con una delle rinascite di cui New York è culla e palcosceni­co: le mille luci pronte a diventare titoli e slogan, i teatri rimessi a nuovo — Disneyfica­tion, la chiamano i detrattori — i marciapied­i restituiti alle folle.

Le stesse che erano state fotografat­e il 7 maggio 1945 da Tony Linck, nel giorno della Vittoria in Europa nella Seconda guerra mondiale: anche se l’immagine destinata a entrare nell’immaginari­o del pianeta è quella dove dalla folla si staccano un marinaio e un’infermiera, colti in un bacio che festeggiav­a la Vittoria sul Giappone, la fine dell’incubo.

Di baci, Times Square è testimone ogni giorno — la attraversa­no 355 mila pedoni, 480 mila nei giorni più affollati, 66 mila tra le 19 e l’una di notte —, ma più che mai a capodanno, quando la sua palla rimbalza nelle immagini di tutto il mondo. E non è un caso che proprio quel luogo, proprio quel momento, furono scelti da Rudy Giuliani per passare il testimone a Michael Bloomberg. Era il 1° gennaio 2002, meno di quattro mesi dopo l’11 settembre: c’era da vincere la paura, e rendere al mondo un simbolo.

La piazza che aveva schivato, fino a ieri, due attentati, era tornata il luogo impossibil­e da evitare per ogni pellicola pop ambientata in città: da Spider Man a Godzilla, da Vanilla Sky a Io sono leggenda — film che provano a rendere un’esperienza quasi impossibil­e, quella di una piazza abitata solo dal silenzio.

Eppure le parole innervano quel luogo — quelle delle insegne, quelle dei passanti, quelle di chi, a Times Square, ha dato il suo nome. La bomba di ieri ha colpito il luogo che separa l’antica sede del quotidiano più importante del mondo dall’attuale, il grattaciel­o di vetro e metallo firmato da Renzo Piano, proprio di fronte alla fermata della 42esima strada. Al terminal dei bus (sotto il quale scorrono 11 linee di metropolit­ana: lo snodo più ampio di una rete sterminata) arrivano, e di lì partono, i Greyhound, altro simbolo di quell’America raccontata da Simon e Garfunkel, sfatta perduta e cocciutame­nte cosciente di essere qui per dare la caccia a un sogno.

E se l’attacco di ieri puntava a un incrocio di simboli, simbolico è anche il modo in cui la città ha reagito. «L’isteria di massa è una forza terribile, eppure gli abitanti di New York sembrano sempre in grado di sfuggirle, se pur d’un soffio». Lo scriveva White, nel 1949: è tornato vero ieri, nell’angolo di città dove tutto si intreccia.

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