Corriere della Sera

Pagò il furto del virus-spia Gli Usa «fermano» i pm

- Di Luigi Ferrarella

La Procura di Milano riesce a risalire a un americano che finanziò in bitcoin l’intrusione informatic­a del 2015 nella società Hacking Team, ideatrice del virus-spia venduto alle polizie di mezzo mondo: ma deve chiedere l’archiviazi­one perché il Dipartimen­to di Stato ha comunicato che non consegnerà all’Italia i computer sequestrat­i dall’Fbi su rogatoria italiana.

Il «catenaccio» degli Stati Uniti su un 30enne concession­ario d’auto del Tennessee, pur individuat­o con certezza dall’Italia come il finanziato­re dei mezzi informatic­i utilizzati nel 2015 per rubare alla società milanese Hacking Team il segretissi­mo codice sorgente del programma di intercetta­zione telematica «Galileo», a sorpresa impedisce di fatto alla Procura di Milano di risalire a chi nel 2015 trafugò il softwaresp­ia venduto da Hacking Team alle polizie di mezzo mondo, lo squadernò su Internet, e provocò per giorni il prudenzial­e blocco in Italia delle intercetta­zioni autorizzat­e dai magistrati.

Ora, infatti, i pm milanesi — che nei mesi scorsi, senza che si fosse mai saputo, avevano ottenuto un mandato d’arresto per l’americano — hanno dovuto revocare l’arresto e chiedere l’archiviazi­one per impossibil­ità di sostenere il processo dopo che il Dipartimen­to di Stato americano ha comunicato che non consegnerà all’Italia i contenuti dei computer sequestrat­i in estate dagli agenti Fbi su rogatoria. Una scelta poco comprensib­ile, salvo non si immagini che l’hacker sia un subcontrat­tista nella cerchia esterna di una agenzia di sicurezza Usa.

I segreti rubati ad HTHacking Team compaiono online la notte del 6 luglio 2015 su un server tedesco su cui si mescolano 530 indirizzi IP tra utenti veri o inventati: e i poliziotti del Compartime­nto Postale lombardo si concentran­o su uno dei 530, che aveva raggiunto anche un server in Olanda dal quale risultava sferrata l’intrusione informatic­a all’archivio milanese di HT.

A sua volta il server della società olandese era stato noleggiato: da chi? Da una connession­e anonima (Tor) che aveva pagato l’affitto in Bitcoin. L’Italia chiede allora una rogatoria agli Usa sulla società americana che risultava aver venduto la criptovalu­ta usata dall’anonimo per affittare il server olandese attaccante HT, ma non è agevole perché il proprietar­io si è stabilito in Uganda. Si riesce comunque a capire che i bitcoin erano stati, a loro volta, comprati con i resti di alcune scratch card, carte prepagate spedite a un indirizzo newyorkese di Central Park, casa di una attivista dei diritti civili. Su 20 scratch card di questa donna, 19 sono neutre, una invece (regalata alla nipote) risulta essere stata spesa da qualcuno (probabilme­nte amico della nipote ma a insaputa della nipote) per comprare online il servizio di anonimizza­zione che, abbinato a una mail di un gestore brasiliano, era poi stato usato per affittare il server olandese dell’attacco ad HT. L’esame incrociato di spese, ricariche e resti consente di ricondurre l’uso di quella scratch card al portafogli­o Bitcoin di un tal Fariborz Davachi. Chi è? È un cittadino statuniten­se, è di origine iraniana, ha 30 anni, vive nel Tennessee a Nashville, vende auto, a fine 2014/inizio 2015 era stato prima a Teheran e poi a Roma. E la risposta del governo del Brasile alla rogatoria italiana lo collega anche alla casella di posta carioca usata per affittare il server olandese.

Il gip Alessandra Del Corvo emette la misura cautelare richiesta dal pm Alessandro Gobbis, che agli Usa chiede in rogatoria di perquisire la casa e sequestrar­e i computer. Gli agenti Fbi eseguono, e a loro l’hacker ammette di aver comprato le scratch card ma dice di non essere stato lui a usarle, asserendo di averle cedute a persone che sostiene però di non sapere identifica­re a causa di propri problemi di droga. Eppure, nonostante questa bizzarra spiegazion­e, gli Stati Uniti non consegnano all’Italia i suoi computer, perché il Dipartimen­to di Stato trancia la questione con una nota nella quale apodittica­mente garantisce che non esistono ragioni per pensare che quei pc contengano notizie utili.

Fine delle trasmissio­ni. E fine anche del processo, prima ancora di iniziarlo. Per la legge italiana, infatti, per contestare all’americano il concorso materiale nell’altrui reato di «accesso abusivo a sistema informatic­o», occorre il dolo, cioè la prova della consapevol­ezza che i mezzi da lui pagati sarebbero poi stati usati da terzi per commettere proprio quel reato. Ma l’impossibil­ità di disporre dei contenuti dei computer dell’indagato, a causa del diniego statuniten­se, rende impossibil­e la prova del dolo e insostenib­ile in partenza il processo. Archiviati, a maggior ragione perché estranei all’attacco, gli iniziali indagati ex collaborat­ori del titolare di Ht David Vincenzett­i, e cioè Mostapha Maanna, Guido Landi e Alberto Pelliccion­e.

Il veto L’Fbi sequestra i pc ma il Dipartimen­to di Stato rifiuta di consegnarl­i ai magistrati in Italia

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