PITTURA DI FEDE CON ECHI D’ANARCHIA
FINE ‘500: NELLE MARCHE NASCE UN’ARTE INSOLITA (CHE ABITA ANCORA QUI)
L’appuntamento A Macerata la seconda tappa di un progetto che valorizza opere e luoghi della regione ferita dal terremoto. E dove la bellezza risiede nella sua varietà
Mettete insieme un palazzo magnifico — con stucchi, specchi e affreschi così straordinari che si benedice il cielo per averlo risparmiato dal turismo di massa — e un santuario dal nome evocativo di Santa Maria delle Vergini che fa pensare a una leggenda medievale. Ed ecco che a Macerata va in scena il racconto di una storia singolare: quella della pittura marchigiana di fine Cinquecento, venata di eccentricità e screziata da un’ombra blu di malinconia.
Nel palazzo Buonaccorsi, infatti, hanno trovato temporaneo ricovero le opere della chiesa delle Vergini colpita dal terremoto, trasformando così la necessità in un’occasione per fare il punto su uno snodo artistico cruciale che dal 1992 non era più stato oggetto di una mostra. La rassegna che ne è scaturita, «Capriccio e natura», indaga quella fase culturale segnata dal papa marchigiano Sisto V Peretti (15851590) che, fra i cantieri di Roma e Loreto, promosse uno stile peculiare così apprezzato da diffondersi in tutte le Marche e da sopravvivere anche oltre il suo pontificato. Si tratta di un gusto per sistemi decorativi complessi, composti da un insieme corale di affreschi, stucchi, sculture e pitture su tela, così da creare un effetto scenografico che non rispondeva più al senso di misura rinascimentale ma lasciava trapelare una «sottile e intermittente tentazione di anarchia — spiega Anna Maria Ambrosini Massari, curatrice della mostra assieme ad Alessandro Delpriori —. Il paradigma si poteva trovare nella cappella dei Duchi Della Rovere del santuario di Loreto, modello perfetto della decorazione sistina, già proiettata su uno scenario che annuncia novità imminenti».
Cioè quelle barocche che prenderanno avvio da questo capriccioso miscuglio di razionale e irrazionale, natura e artificio. Ma mentre Loreto subirà le spoliazioni napoleoniche, i rimaneggiamenti e le sostituzioni delle epoche successive, il tempio maceratese delle Vergini rimarrà intatto fino a oggi diventando a sua volta il luogo simbolo di quello stile così peculiare nel territorio. Da chiese e musei marchigiani vengono infatti la maggior parte delle altre opere che nel Palazzo Buonaccorsi sono state affiancate a quelle delle cappelle del santuario delle Vergini: lavori di Gaspare Gasparini, Vincenzo Conti, Giovan Battista e Francesco Ragazzini, Giuseppe Bastiani, Federico Barocci, dei fratelli D’Arpino, di Taddeo e Federico Zuccari fino all’ormai caravaggesco Giovanni Baglione. Una ricchezza artistica sparsa capillarmente in tutte le Marche, sopravvissuta, a differenza delle testimonianze del XV secolo, nelle sedi originarie.
«Mi piacciono in modo particolare gli artisti che vanno controcorrente come Andrea Bosco, il quale trova nelle Marche un mondo più libero e autentico che a Firenze — rivela Ambrosini Massari —. O come Andrea Lilli, altro pittore bizzarro e stralunato che avverte le contraddizioni del mutamento culturale di fine secolo decidendo però di non risolverle, ma di manifestarle e tradurle con un linguaggio inquietante come farà anche Simone De Magistri. In quel periodo, nelle Marche, c’erano scintille che scoppiettavano rispetto al linguaggio più normalizzato di Roma». D’altronde succede spesso che in periferia si concentrino i personaggi più inquieti, sospinti dal buon gusto, dalle buone maniere e dall’ortodossia del centro. Ma c’è di più: questi spiriti stravaganti e ipersensibili percepivano anche i segnali della fine di un’epoca. Già nel 1532 la Repubblica marinara di Ancona era stata assorbita dallo Stato pontificio e il processo stava andando avanti. «La fine del XVI secolo fu l’ultimo periodo di autonomia culturale delle Marche. Nel 1631, con la devoluzione del Ducato di Urbino allo Stato della Chiesa, si chiudeva anche l’epoca delle corti. C’era nell’aria il sentimento di un declino fatale riflesso nella malinconia profonda delle opere di Federico Barocci dove per esempio il Palazzo Ducale di Urbino sfuma nella nebbia. O, come nel suo San Francesco in mostra, il magnifico paesaggio sullo sfondo appare avvolto nella notte».
A Palazzo Buonaccorsi va in scena l’ultimo esuberante e insieme struggente episodio di una cultura originale che per fortuna è ancora conservato in decine di luoghi da riscoprire. Molti dei quali suggeriti in catalogo, come l’oratorio di Fabriano, il santuario di San Severino, i conventi e le chiese fra Cagli, Sassoferrato, Ripatransone, Offida, su su fino a Urbino, nella cappella della Sacra Spina nell’Oratorio di Santa Croce.
La co-curatrice «Qui c’erano scintille che scoppiettavano rispetto al linguaggio normalizzato di Roma»