L’effetto #MeToo sul voto e su Trump
Dopo gli scandali degli abusi, i flussi misurano lo spostamento delle elettrici. Record di 333 candidate democratiche al Congresso
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
È il momento politico delle donne. Il voto dell’Alabama ha cristallizzato in numeri l’onda liquida del movimento «MeToo». Secondo gli exit poll, il 57% del voto femminile ha scelto il democratico Doug Jones, l’avversario di Roy Moore, il candidato repubblicano, appoggiato da Donald Trump e super favorito prima di essere sommerso dalle accuse di molestie sessuali.
Dentro quel 57% ci sono altre percentuali di grande interesse. Unanime la scelta delle afroamericane: 98% per Jones, solo il 2% per Moore. Sorprendente quella delle bianche: 34% per il democratico; 63% per il repubblicano. Nelle presidenziali del 2012 solo il 16% delle donne bianche votò per l’afroamericano Barack Obama, opposto a Mitt Romney. Questa tendenza tra le bianche sale fino al 40% delle laureate e scende al 22% delle donne senza un titolo di studi universitario. Tra le afroamericane, però, la dinamica è opposta: le laureate anti-Moore sono un po’ meno numerose delle altre, 86% contro il 90%.
Da tutte queste cifre arriva un messaggio molto nitido per Trump: anche nello Stato più conservatore, più repubblicano del Paese aumentano le donne infastidite, deluse o 83 Senatrice di New York disgustate dagli abusi sessuali degli uomini in posizioni di potere. È un elemento politico trasversale alle razze, alle classi sociali, ai gradi di istruzione. Ed è un avvertimento diretto a questo presidente che nel 2016 era arrivato alla Casa Bianca anche grazie al consenso del 53% delle donne bianche (42% il totale).
Nel mondo femminile americano è scattato qualcosa. Come dimostra la spinta potente Senatrice della California LE DONNE CHE CORRONO PER IL CONGRESSO Democratici Repubblicani CAMERA 374 potenziali candidate verso la condivisione pubblica: le centinaia di migliaia di tweet dopo il caso Weinstein, il produttore-predatore di Hollywood. L’attrazione per l’impegno diretto in politica è diventata più forte. Il Rutgers University’s Center for American Women and Politics sta compilando la lista delle potenziali candidate per le elezioni di mid-term del Congresso, previste per novembre 2018. Al 13 dicembre 2017 la lista comprende 416 nomi: 374 alla Camera e 42 al Senato. Siamo già a livelli record. Furono 312, più di cento in meno, nel 2016, nonostante il traino di Hillary Clinton.
In politica non sempre valgono le leggi della fisica. All’azione delle candidature democratiche, 333 per tutto il Congresso, corrisponde una reazione repubblicana molto più blanda, 83. Chiaramente non è una sorpresa. La mobilitazione SENATO 42 potenziali candidate femminile è sostanzialmente anti-trumpiana. Viene allo scoperto con la marcia del 21 gennaio a Washington e in altre città, il giorno dopo l’ingresso di «The Donald» nello Studio Ovale. Si è messa in moto una progressione che ci proietta già all’appuntamento del 2020. L’8 settembre scorso il Washington Post pubblicava la lista dei possibili 15 sfidanti di Trump. Nei primi dieci posti comparivano tre donne: la più quotata di tutte, alle spalle di Bernie Sanders, Joe Biden e il parlamentare Chris Murphy, ecco la senatrice Elizabeth Warren, figura ormai storica della sinistra radicale. Ma oggi sembrano più interessanti i nomi delle altre due senatrici: Kamala Harris, settima, e soprattutto Kirsten Gillibrand, sesta.
Kamala, cinquantatreenne californiana, anima l’inchiesta sul Russiagate della Commissione Intelligence. Kirsten, nata 51 anni fa nello Stato di New York, è la protagonista della nuova fase. Ha convinto il partito democratico a chiedere e ottenere le dimissioni del senatore Al Franken, anche lui accusato di molestie sessuali; poi si è scontrata duramente con Trump, via Twitter. Gillibrand appare oggi la più in sintonia con la riscossa democratica partita dall’Alabama.