Corriere della Sera

I pm sulla trattativa «Istituzion­i tradite dal patto con i clan»

Palermo, la requisitor­ia dopo 4 anni di udienze

- Giovanni Bianconi © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

PALERMO «Dietro la retorica della lotta alla mafia senza cedimenti è emersa un’altra verità: la fermezza è stata tradita, e una parte importante e trasversal­e delle istituzion­i, spinta da esigenze egoistiche, politiche e di potere contrabban­date da ragion di Stato, ha cercato e trovato il dialogo e un parziale compromess­o con Cosa nostra, sottotracc­ia e clandestin­o», accusa il pubblico ministero Roberto Tartaglia. Dopo quattro anni e mezzo e 202 udienze, il processo sulla presunta trattativa Statomafia ha imboccato la dirittura d’arrivo, con l’avvio della requisitor­ia che tra circa un mese si chiuderà con le richieste di condanna degli imputati.

«Si tratta di un processo che incrocia una parte significat­iva della storia d’Italia, tra la metà degli anni Ottanta e le stragi del 1992-93», spiega il pm che quando scoppiaron­o le bombe di Capaci e via D’Amelio era un bambino di dieci anni. Al suo fianco ci sono i colleghi che prenderann­o la parola nelle prossime udienze: Nino Di Matteo, che nel ’92 aveva appena indossato

la toga, Francesco Del Bene che frequentav­a l’università e Vittorio Teresi che già lavorava in Procura con Falcone e Borsellino. Tre generazion­i di magistrati schierate per sostenere l’atto d’accusa più arduo: una commistion­e tra boss, carabinier­i e politici che nella stagione dei kalashniko­v e del tritolo avviarono «una mediazione occulta che ha realizzato i desideri più arditi di Cosa nostra, al di fuori di ogni legalità».

I pm sono convinti di aver dimostrato, nel corso di un lungo e spesso dimenticat­o dibattimen­to, la responsabi­lità degli imputati. Provenzano e Riina sono morti, Mannino è stato assolto in primo grado con il rito abbreviato; restano gli altri boss Bagarella, Cinà e Brusca, l’ex senatore Marcello Dell’Utri (malato nel carcere dove sta scontando la pena per concorso in associazio­ne mafiosa) e i tre ex ufficiali dell’Arma Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni. Poi ci sono Massimo Ciancimino accusato di concorso esterno e calunnia, e l’ex ministro Mancino di falsa testimonia­nza. Ma oltre che nel giudizio su Mannino, ancora provvisori­o, i pm — sempre gli stessi — hanno già perso in altri processi collegati, dove Mori era imputato per la mancata perquisizi­one del covo di Riina nel ’93 e il mancato arresto di Provenzano nel ’95: assoluzion­i definitive.

Memore di quelle sconfitte, l’accusa invita i giudici della corte d’assise a non guardare singolarme­nte gli elementi di prova, ma a valutarli in una ricostruzi­one unitaria che parte dalle condanne definitive nel maxiproces­so voluto da Giovanni Falcone, prosegue con gli omicidi e le bombe del ‘92-‘93 e si chiude con gli attentati falliti nel ‘94, mentre l’Italia transitava dalla prima alla seconda Repubblica: «Non si tratta di opacità o negligenze investigat­ive scollegate tra loro, ma di un unico disegno in cui il ricatto di Cosa nostra al governo, per farlo recedere dal contrasto netto alla mafia, è stato rafforzato dai mediatori occulti, come fossero complici oggettivi di un’estorsione».

Riina, non c’è più, e ieri la corte ha disposto l’acquisizio­ne del certificat­o di morte. Ma in questo processo il «capo dei capi» continua a parlare attraverso i suoi colloqui intercetta­ti in carcere nel 2013. Quando diceva, ad esempio: «Io al governo gli dovevo vendere i morti, gli davo i morti». Chiosa il pm Tartaglia: «In questa frase c’è l’essenza della trattativa. La mafia faceva le stragi per avere un corrispett­ivo, e gli imputati delle istituzion­i ne sono stati la cinghia di trasmissio­ne».

Mediatori occulti C’è un unico disegno in cui il ricatto della mafia allo Stato è stato favorito da mediatori occulti

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