È NECESSARIO USCIRE DAL CICLO DEL RANCORE
Per un paio di settimane sono stati frequenti, nella dialettica sociopolitica, i riferimenti all’ipotesi che gli italiani siano rancorosi, che ispirino cioè una diffusa espressione di tale sentimento.
Ora che l’onda della cronaca si è spostata verso altri temi, può essere utile ritornare sull’argomento e domandarsi cosa sia il rancore e da quale emotivo subbuglio provenga. Alcuni fra i lettori più attenti sono andati all’uopo a compulsare i nostri più storici dizionari, ma le loro definizioni del termine «rancore» non aiutano a capirne le origini professionali, quelle psicologiche ed antropologiche.
Perciò mi sono andato a rileggere René Girard e la sua convinzione che «il rancore è il lutto di ciò che non è stato»: una definizione che permette di prendere concretamente atto delle sue diverse espressioni. Si può cioè prendere atto che il rancore è, per molti coniugi, il lutto di un matrimonio non realizzato; il rancore è, per molti diplomati e laureati, il lutto di un avanzamento sociale che non c’è stato; il rancore è, per molti impiegati, anche ad alto livello, il lutto di una carriera che non c’è stata; il rancore è, per molte fasce di marginalità sociale, il lutto di una integrazione sociale che non c’è stata; il rancore è, per molti imprenditori, il lutto di un mercato che non c’è stato.
Si è diffusa molta frustrazione (e di conseguenza molto rancore) nella nostra società, purtroppo da tempo ferma e chiusa; ed è quasi inevitabile che gli interessati (singoli o categorie) imputino la loro non realizzazione alle distorsioni della struttura sociale e più ancora ai diversi meccanismi del potere, cioè a quella famosa «casta» che opera su tutto il sistema, ma che si ritrova in sedicesimo anche nelle più minute collocazioni di lavoro e di relazione sociale.
Non può sorprendere allora il carattere ampio e diffuso del rancore in questo particolare periodo. Ma non si può al tempo stesso non notarne il carattere regressivo, visto che
Svolta La prossima sfida politica si giocherà sulla possibilità di aprire una fase nuova
poggia su «ciò che non è stato». In esso c’è poca speranza di futuro e troppa malinconia; per cui è impossibile costruirci propulsione in avanti e prospettico immaginario collettivo.
Qualche forza politica cerca comunque, comprensibilmente, di cavalcare il rancore: in campagne d’opinione livide ed arrabbiate (contro la casta o contro gli immigrati); in agitate forme di populismo radicale (di anti-politica o di anti-Europa); o in forme di generico richiamo a tutti i frustrati del regno perché mettano fine alle ingiustizie che hanno subito in precedenza. Quanto potranno giuocare queste posizioni politiche nelle elezioni ormai alle porte? È probabile che esse abbiano un qualche peso, visto che veniamo da una lunga stagione di mobilitazione di massa sul rancore e sui sentimenti relativi (la rabbia, l’indignazione, l’invidia, la richiesta di livellamento).
Ma c’è da pensare che tale formidabile stagione sia in calo di spinta elettorale; un calo che non si riscontrerà a pochi mesi, ma di cui si avvertono i sintomi significativi, come la constatazione che la forza politica che ha più innaffiato e coltivato il rancore collettivo stia tentando di giuocare la carta opposta: la felicità collettiva. Forse «annusa» che la futura sfida politica si giuocherà sulle sfide di aprire un ciclo nuovo, con una mobilitazione di massa che superi l’attuale appiattimento al presente e al passato. La lunga continuità del modello di sviluppo ci ha dato tutto; ma non è azzardato dire che una esperienza di nuovo ciclo (parola da tempo desueta) sarebbe cosa utile da tentare.