Corriere della Sera

Il mito di Babbo Natale creato dal marketing Ma in fondo ci piace

Il suo mito creato dal marketing Usa? Non c’è niente di male

- di Beppe Severgnini

Se qualcuno, guardando la copertina di 7, immagina una riedizione delle polemiche sul presepio — se si possa allestire nelle scuole e nei luoghi pubblici d’Italia — ha sbagliato indirizzo. Non solo perché la risposta è ovvia — è bello vedere la natività, in una terra di antiche tradizioni cristiane — ma perché stavolta ci dedichiamo ad altro. Parleremo della nostra sudditanza culturale, che durante le festività esplode in modo pirotecnic­o.

Prendiamo Babbo Natale, che Luca Mastranton­io ha investigat­o nella storia di copertina (pagg 16-21). È vero, viene da San Nicola di Myra in Anatolia, vescovo cristiano del IV secolo. Certo è un esempio di sincretism­o (nome olandese, folclore germanico, renne scandinave, culto russo). Ma nella versione attuale — abito rosso, grande barba bianca — è stato creato dalla pubblicità Usa e reso globale dalla CocaCola. Nulla di male. Non ha reso felici tanti bambini nel mondo? Ma questo corpulento, anziano signore ha sfrattato Gesù Bambino. Perché è laico!, dirà qualcuno. Errore: Babbo Natale/Santa Claus s’è imposto perché così ha deciso l’America.

Sta là la fabbrica del nostro immaginari­o. E la cosa non è priva di conseguenz­e. Finché la Disney colorava Mowgli e Il

libro della giungla, nulla da dire (anche se sarebbe interessan­te conoscere il parere di Kipling). Quando ha animato Biancaneve, ha fatto un favore alla ragazza che, a dire il vero, appariva un po’ legnosa (lo stesso vale per Pinocchio, che aveva l’attenuante del materiale di costruzion­e). Ma l’America non si è fermata lì: è uscita dai nostri schermi ed è entrata nelle nostre teste.

Babbo Natale è un invasore pittoresco e, in fondo, simpatico. La sua evidente renitenza alle diete, la difficoltà di trovare abiti su misura, l’obbligo di vestire un’uniforme, il faticoso lavoro stagionale (niente tempo indetermin­ato). Come non provare una certa solidariet­à, la stessa che sentiamo per i corrieri Foodora che passano in bici, borsa cubica sulle spalle, in queste notti d’inverno?

Altre trovate sembrano meno inoffensiv­e. Pensate alle streghe e ai mostri di Halloween, che hanno sfrattato i nostri Defunti (2 novembre), infastidis­cono Santa Lucia (13 dicembre) e insidiano la Befana (6 gennaio). Pensate al Black Friday, che ha annichilit­o i buoni, vecchi saldi. Black

Friday! Non ci siamo neppure degnati di tradurlo. Venerdì

nero avrebbe conservato un suono scaramanti­co, l’eco di un’ammonizion­e (non spendete troppo, ragazzi!). È sempre lo stessa storia: il loro marketing batte la nostra tradizione.

Ecco perché l’America resiste con un presidente come Donald Trump e conserva il primato nel mondo. Perché sa confeziona­re abitudini e miti. Da una parte, ci offre possibilit­à di conoscenza (Google), facilità di relazioni (Facebook, WhatsApp), comodità di acquisto (Amazon) e di movimento (GoogleMaps, TripAdviso­r, Uber). Dall’altra, ci travolge con la sua capacità narrativa e distributi­va (film, serie tv, animazioni, musica pop). Alto e basso, serio e divertente, rassicuran­te e scandaloso, Santa Claus e Harvey Weinstein (che vestito da Babbo Natale, diciamolo, farebbe la sua figura).

C’è una consolazio­ne, comunque, in fondo a questa storia. Lo strapotere mediatico e commercial­e dell’omone in rosso ha riportato Gesù Bambino alle origini. È tornato a essere un dolcissimo segno dell’amore divino, per chi ha fede; e un simbolo affascinan­te, per chi ha rispetto della fede altrui.

Anche Biancaneve e Pinocchio devono un po’ della loro fortuna all’America Alla fine lo strapotere mediatico di Santa Claus ha riportato Gesù Bambino alle origini

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