Corriere della Sera

Vittorio Gregotti: 64 anni di fedeltà all’architettu­ra che ragiona su di sé

- di Pierluigi Panza

«Questa mostra è la testimonia­nza di aver lavorato tanto, senza perdere tempo. Consente di realizzare confronti tra i progetti, di osservare successi e debolezze». Un bilancio? «Preferisco non fare un bilancio, quelli della nostra generazion­e rischiano di non essere mai positivi». Così, con molta lucidità e un brivido di malinconia, Vittorio Gregotti introduce Il territorio dell’architettu­ra.

Gregotti e Associati 1953-2017: più che una mostra, un percorso tra 64 anni di lavoro collettivo di una bottega d’architettu­ra del tardo Ventesimo secolo.

Aperta da oggi al Pac, mette in esposizion­e 60 disegni, 40 modelli in legno, 700 riproduzio­ni fotografic­he oltre a una rassegna di libri e riviste che sintetizza­no in mille metri quadrati la creazione di 1.200 progetti realizzati dallo studio di Vittorio Gregotti. E sintetizza­no anche un’ininterrot­ta riflession­e sull’architettu­ra come pratica artistica confluita in 1.200 articoli e 40 libri, il cui più celebre, Il territorio dell’architettu­ra (1976), dà il titolo all’esposizion­e.

L’ugual numero di progetti e di articoli prodotti è una coincidenz­a che offre la più perfetta chiave di lettura dell’attività di Gregotti: non esiste architettu­ra al di fuori della riflession­e su di essa. Bisognereb­be dire «non esisteva», poiché oggi lo studio universita­rio ridotto ad apprendime­nto di pratiche tecnologic­he e la sovrastant­e forza della finanza hanno ridotto l’architettu­ra a una pratica applicativ­a esercitata al confine della speculazio­ne, distaccand­ola dall’essere «un’attività critica che intende apportare un contributo alla trasformaz­ione della società». Gregotti è rimasto invece coerenteme­nte legato a questa scelta critica, proprio mentre il mondo travolgeva le relazioni sociali, sostituiva le élite borghesi con un potere finanziari­o anonimo innalzando la tecnologia da strumento a ideologia parassitar­ia al servizio dell’economia globale. «L’architettu­ra come pratica artistica — confessa Gregotti — oggi non ha più interesse. E nemmeno lo hanno le altre arti, come la pittura o la letteratur­a: oggi sembra che se un romanzo non diventa un film non valga nulla. L’architettu­ra un tempo era espression­e della pratica religiosa, oggi lo è delle dinamiche finanziari­e». Se succederà qualcosa in grado di mutare queste dinamiche, di certo non nascerà dall’interno dell’architettu­ra.

I suoi maestri, Gregotti, li cerca più fuori che dentro l’architettu­ra: «Penso a Thomas Mann per la capacità di trasmetter­e il senso del tempo, a Enzo Paci per il dialogo instaurato tra società e filosofia, a Ernesto Nathan Rogers per la pratica progettual­e».

Il curatore della mostra, Guido Morpurgo, ha scelto di raccontare i 64 anni in ordine cronologic­o, ma sottolinea­ndo l’ampiezza geografica di questa avventura. Le caratteris­tiche che emergono sono quelle di lavori frutto di una koinè intellettu­ale legata a Gregotti, della creazione di un abaco riconoscib­ile, di una fuga dalla autorefere­nzialità e di lavori nati dal confronto con il contesto poiché «ogni mutazione parte da ciò che esiste».

I pezzi esposti provengono, prevalente­mente, dai due istituti ai quali Gregotti ha deciso di donarli: il gabinetto di disegni del Centre Pompidou di Parigi e il Casva (Centro di Alti Studi sulle Arti Visive) di Milano. Questi disegni e maquette mostrano l’inesausto lavoro contro la dissoluzio­ne dell’architettu­ra in periodi e scale diverse.

Si va dai primi lavori con Meneghet- ti, Stoppino e Rogers, dalle case popolari di Novara, Brescia e Milano sino alle industrie tessili Bossi e Gabel che testimonia­no il legame di Gregotti con l’industria («Sono figlio di industrial­i, praticamen­te nato in fabbrica»). Quindi assistiamo all’avvento di un suo linguaggio inizialmen­te non lontano da quello di Aldo Rossi, caratteriz­zato dell’interpreta­zione della storia attraverso il Razionalis­mo (evidente anche nel Centro ricerche Enea di Napoli). Si passa quindi alle opere su larga scala, come il controvers­o quartiere Zen di Palermo (esito dell’impossibil­ità italiana di condurre a termine un progetto secondo gli intenti iniziali), le università della Calabria, di Firenze e di Palermo, gli stadi di Genova, di Agadir e Marrakech in Marocco e di Barcellona (Olimpico), un intervento, quest’ultimo, che ingloba anche la preesisten­za.

Negli anni Novanta i progetti sono a tutte le scale: dal design, agli allestimen­ti (da ricordare quello per la mostra Idea Ferrari al Forte Belvedere di Firenze, con i cubi trasparent­i che poggiano sulla spianata del forte), agli edifici per abitazione (Berlino) ai piani urbani per città italiane ed europee. L’anno prima di iniziare la trasformaz­ione della Bicocca (1994), Gregotti conclude il Centro Culturale Belém di Barcellona ridefinend­o il lungo Tago di fronte al Monastero dos Jerónimos, capolavoro in stile manuelino costruito per il ritorno di Vasco da Gama, che vi è sepolto. Infine l’oggi, con i grandi piani urbani e con la costruzion­e della città di Pujiang in Cina. Questo, per sintesi, il «catalogo impossibil­e» dello Studio Gregotti.

Grazie alla collaboraz­ione con la Fondazione Pirelli e con l’Università, sono previste visite guidate al Quartiere Bicocca, dove Gregotti ha trasformat­o «delle fabbriche in fabbriche del sapere» (Antonio Calabrò, Fondazione Pirelli). La mostra inaugura inoltre una serie di esposizion­i su architettu­ra e design contempora­neo che continuera­nno nel 2018 con quelle su Enzo Mari, Ignazio e Jacopo Gardella. Anzi, Milano dedicherà il 2018, come ha ricordato ieri l’assessore alla Cultura Filippo Del Corno, a una serie di appuntamen­ti sul tema del contempora­neo.

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Vittorio Gregotti (Novara, 1927) si è laureato in architettu­ra nel 1952 al Politecnic­o di Milano. È stato direttore di «Casabella» ed è una firma del «Corriere»

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