Diventare italiano dopo Caporetto I ricordi di un profugo ragazzino
«Non credo che il viaggio da Vittorio Veneto a Mestre sia durato meno di tre o quattro giorni», ricordava Romano Romano. Eppure si trattava di coprire in treno un tragitto di circa 60 chilometri: solo che il momento era uno dei più tragici vissuti dal nostro Paese nella sua storia unitaria, all’indomani dello sfondamento austro-tedesco a Caporetto, con le armate italiane in precipitosa ritirata e le retrovie nel caos più assoluto. Mestre era diventata in quei giorni il nodo ferroviario più importante della penisola, fondamentale per gestire un’emergenza senza precedenti.
Il padre di Sergio Romano nell’autunno 1917 aveva appena tredici anni: allievo in un collegio di Vittorio Veneto, non poteva tornare a casa quando il fronte cominciò ad avvicinarsi, perché la sua famiglia abitava a Latisana, nel Friuli ormai occupato dal nemico. E così cominciò la piccola odissea raccontata dal protagonista in una registrazione del 1977: all’epoca venne raccolta in un libro a tiratura limitata per le edizioni All’insegna del pesce d’oro, oggi la ripropone Nuova Argos in un volumetto riccamente illustrato con belle fotografie della Grande guerra, I ragazzi di Caporetto.
Romano Romano, in divisa da alpino, venne messo a capo di un gruppo di ragazzini, maschi e femmine originari del Friuli, che dovevano raggiungere un collegio di suore salesiane a Bologna. Poi fu indirizzato a Torino, da cui successivamente partì per raggiungere una sorella del padre a Milano. Più tardi si spostò a Firenze, dove nel frattempo era arrivata la madre, profuga da Latisana. Nel capoluogo toscano festeggiò la vittoria del 1918, in seguito a Milano venne colpito dall’influenza spagnola. Rientrò in Friuli, dove la casa di famiglia era stata completamente saccheggiata, pochi giorni prima di compiere 15 anni, nell’estate 1919. Era ormai considerato dai suoi genitori un adulto, aveva anche cominciato a fumare e soprattutto, raccontava, «da friulano che ero al momento della partenza, ero diventato italiano». Non solo: il fatto di aver visto la patria risorgere dopo un colpo così tremendo lo induceva sessant’anni dopo a non disperare per le sorti del nostro Paese. «Non riesco a essere pessimista», sono le parole con cui si chiude questa testimonianza.
Anche la riflessione che Sergio Romano ha aggiunto ai ricordi del padre non indulge al facile pessimismo. Critica per esempio i giudizi troppo pesanti sui generali Luigi Cadorna e Luigi Capello, principali responsabili della sconfitta di Caporetto, mettendo semmai in rilievo l’effetto deleterio che ebbero in quelle circostanze le differenze culturali e caratteriali tra i due alti ufficiali. E soprattutto smentisce l’idea che i soldati italiani avessero «fatto sciopero», rifiutando di lottare, per scarsa combattività (come insinuò proprio Cadorna) o per spirito di rivolta contro una classe dirigente reazionaria
(come ha ipotizzato qualche storico di sinistra).
Il problema è un altro, sostiene Sergio Romano, puntando il dito su una borghesia italiana che, costruito lo Stato unitario nel Risorgimento, non riuscì a suscitare una solida coscienza nazionale nelle masse popolari. Un difetto da cui derivano anche gli eccessi di scoramento e di esaltazione patriottica che abbiamo conosciuto in diverse occasioni nella nostra storia. In effetti, tra l’autoflagellazione di Caporetto e la tronfia retorica di Vittorio Veneto, successo militare colto quando l’Impero austro-ungarico era ormai in preda al caos, sarebbe ora di trovare una ragionevole via di mezzo: «Felici i Paesi — scrive Sergio Romano — che sanno fare ogni giorno la media ponderata delle proprie emozioni».
Esperienze Dopo aver vissuto la catastrofe e quindi la riscossa, non riusciva a essere pessimista