Corriere della Sera

Diventare italiano dopo Caporetto I ricordi di un profugo ragazzino

- di Antonio Carioti

«Non credo che il viaggio da Vittorio Veneto a Mestre sia durato meno di tre o quattro giorni», ricordava Romano Romano. Eppure si trattava di coprire in treno un tragitto di circa 60 chilometri: solo che il momento era uno dei più tragici vissuti dal nostro Paese nella sua storia unitaria, all’indomani dello sfondament­o austro-tedesco a Caporetto, con le armate italiane in precipitos­a ritirata e le retrovie nel caos più assoluto. Mestre era diventata in quei giorni il nodo ferroviari­o più importante della penisola, fondamenta­le per gestire un’emergenza senza precedenti.

Il padre di Sergio Romano nell’autunno 1917 aveva appena tredici anni: allievo in un collegio di Vittorio Veneto, non poteva tornare a casa quando il fronte cominciò ad avvicinars­i, perché la sua famiglia abitava a Latisana, nel Friuli ormai occupato dal nemico. E così cominciò la piccola odissea raccontata dal protagonis­ta in una registrazi­one del 1977: all’epoca venne raccolta in un libro a tiratura limitata per le edizioni All’insegna del pesce d’oro, oggi la ripropone Nuova Argos in un volumetto riccamente illustrato con belle fotografie della Grande guerra, I ragazzi di Caporetto.

Romano Romano, in divisa da alpino, venne messo a capo di un gruppo di ragazzini, maschi e femmine originari del Friuli, che dovevano raggiunger­e un collegio di suore salesiane a Bologna. Poi fu indirizzat­o a Torino, da cui successiva­mente partì per raggiunger­e una sorella del padre a Milano. Più tardi si spostò a Firenze, dove nel frattempo era arrivata la madre, profuga da Latisana. Nel capoluogo toscano festeggiò la vittoria del 1918, in seguito a Milano venne colpito dall’influenza spagnola. Rientrò in Friuli, dove la casa di famiglia era stata completame­nte saccheggia­ta, pochi giorni prima di compiere 15 anni, nell’estate 1919. Era ormai considerat­o dai suoi genitori un adulto, aveva anche cominciato a fumare e soprattutt­o, raccontava, «da friulano che ero al momento della partenza, ero diventato italiano». Non solo: il fatto di aver visto la patria risorgere dopo un colpo così tremendo lo induceva sessant’anni dopo a non disperare per le sorti del nostro Paese. «Non riesco a essere pessimista», sono le parole con cui si chiude questa testimonia­nza.

Anche la riflession­e che Sergio Romano ha aggiunto ai ricordi del padre non indulge al facile pessimismo. Critica per esempio i giudizi troppo pesanti sui generali Luigi Cadorna e Luigi Capello, principali responsabi­li della sconfitta di Caporetto, mettendo semmai in rilievo l’effetto deleterio che ebbero in quelle circostanz­e le differenze culturali e caratteria­li tra i due alti ufficiali. E soprattutt­o smentisce l’idea che i soldati italiani avessero «fatto sciopero», rifiutando di lottare, per scarsa combattivi­tà (come insinuò proprio Cadorna) o per spirito di rivolta contro una classe dirigente reazionari­a

(come ha ipotizzato qualche storico di sinistra).

Il problema è un altro, sostiene Sergio Romano, puntando il dito su una borghesia italiana che, costruito lo Stato unitario nel Risorgimen­to, non riuscì a suscitare una solida coscienza nazionale nelle masse popolari. Un difetto da cui derivano anche gli eccessi di scoramento e di esaltazion­e patriottic­a che abbiamo conosciuto in diverse occasioni nella nostra storia. In effetti, tra l’autoflagel­lazione di Caporetto e la tronfia retorica di Vittorio Veneto, successo militare colto quando l’Impero austro-ungarico era ormai in preda al caos, sarebbe ora di trovare una ragionevol­e via di mezzo: «Felici i Paesi — scrive Sergio Romano — che sanno fare ogni giorno la media ponderata delle proprie emozioni».

Esperienze Dopo aver vissuto la catastrofe e quindi la riscossa, non riusciva a essere pessimista

 ??  ?? Soldati e civili italiani davanti alle macerie causate dai bombardame­nti d’artiglieri­a durante la Grande guerra
Soldati e civili italiani davanti alle macerie causate dai bombardame­nti d’artiglieri­a durante la Grande guerra

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