«Cibo, calcio, nonni: la mia idea di patria non è secessionista»
Non è catalano, non è candidato, non vota neppure a Barcellona, ma è una delle persone più influenti di queste elezioni. «Non io personalmente — corregge Fernando Aramburu — al massimo, se è davvero così, il mio libro». Il romanzo, caso letterario e civile del 2017, è Patria. Venti edizioni, 500 mila copie vendute in pochi mesi, in Italia è arrivato per merito di Guanda e presto sarà una serie tv. In Catalogna è passato di mano in mano, quasi di nascosto. Di giorno i catalani vedevano il loro President dichiarare l’indipendenza unilaterale e la sera leggevano Aramburu raccontare di un’amicizia spezzata in nome del separatismo. Di giorno i poliziotti spagnoli invadevano le Ramblas e a letto c’era chi leggeva di imprenditori baschi ammazzati dall’Eta. «Decenni di terrorismo basco non sono comparabili con quel che succede in Catalogna, ma molti hanno visto un parallelo tra la storia che racconto e la cronaca di questi mesi». Un parallelo o un monito? «Il romanzo è fatto di casi individuali, e mostra
come ciascuno viva a modo suo dei fatti che poi diventano storia. C’è chi ha fatto ricorso a Patria per mostrare a se stesso la realtà che vive». Terrorismo basco e indipendentismo catalano nascono dallo stesso seme?
«Settori sociali baschi e catalani condividono l’aspirazione all’indipendenza, ma questo è tutto. Metodi, esperienze, drammi sono totalmente diversi». Lei basco, che scrive in spagnolo e vive in Germania, come si spiega la crisi catalana?
«Ho visto cause economiche, dispute per il potere politico, anche il tentativo di mascherare con tematiche appassionanti casi clamorosi di corruzione. Allo stesso modo, però, non si può negare che in Catalogna l’aspirazione indipendentista sia molto antica. Purtroppo, in questi mesi, la politica ha fatto credere che si fosse a un passo dal conseguirla pacificamente. Invece lo Stato spagnolo si è rivelato più forte di quello che i nazionalisti si aspettavano». Che cosa succederà?
«Non mi piace vaticinare. Leggo che i sondaggi indicano il perpetuarsi della stessa frattura politica anche dopo il voto». Da dove viene questo desiderio di un Paese su misura?
«Patria è uno spazio affettivo che condividono tutti. Per alcuni però è l’affetto che sentono verso il luogo dove hanno vissuto i nonni, dipende dal fatto che lì si bevono e si mangiano quei prodotti locali che richiamano momenti piacevoli o perché ci sono quelle squadre di calcio. Altri invece concepiscono la patria in una maniera selettiva, quasi religiosa, in cui il resto del mondo non ha lo stesso diritto di far parte della comunità che chiamano patria». Da che cosa dipende? «Dalla storia, dalle scelte dell’individuo». Cosa c’è di autobiografico in «Patria»? «Nulla: non ho avuto amici uccisi, non sono stato minacciato, nulla. Solo trucchi da scrittore, come usare la memoria dei paesaggi o di volti conosciuti o inserire uno scrittore che dice, guarda caso, le cose che ho detto io in un’occasione simile». Perché l’ha scritto?
«Perché Camus mi ha insegnato a stare vicino alle vittime e anche ad essere costruttivo, moralmente ed eticamente. Almeno ci provo». Andrea Nicastro