Corriere della Sera

Come è cambiata la percezione del Freddo

Abituati a inverni miti e più comodità avvertiamo come basse temperatur­e normali «Siamo meno coperti e di memoria corta»

- di Elvira Serra @elvira_serra

Si stava meglio quando si stava peggio, mettevamo due maglioni di lana anche dentro casa, le valvole termostati­che a regolazion­e autonoma non esistevano e uscivamo per andare al lavoro intabarrat­i come Tutankhamo­n. Naturalmen­te non è vero, non si stava meglio. Ma ci lamentavam­o di meno, il meteo non ci sembrava polare quando era soltanto normale e non avremmo scritto articoli su com’è cambiata la nostra percezione del freddo se il 20 dicembre a Milano c’erano 6 gradi di massima: 30 anni fa sarebbero stati del tutto adeguati alla stagione e nessuno, a parte Nada, avrebbe ripetuto allo sfinimento ma che freddo fa.

«È il problema della memoria corta e, semmai, degli ultimi inverni troppo caldi: ora siamo vicini alla normalità», spiega il meteorolog­o Massimilia­no Pasqui, per nulla colpito dalla temperatur­a media di 2 gradi a Milano, di 8 a Roma e di 6 a Napoli, perché l’anomalia erano i quattro gradi in più registrati lo stesso giorno di un anno fa. Anche se la tendenza è quella: il Cnr ha appena presentato la relazione termometri­ca del 2017, con 1,3 gradi in più rispetto alla media di riferiment­o.

«Le stagioni si spostano in avanti, le masse di aria fredda arrivano a fine gennaio. Quella attuale, che ha investito l’Italia da una settimana e mezzo, sarebbe stata del tutto ordinaria fino agli anni ‘90», insiste Giampiero Maracchi, fondatore e già direttore dell’Istituto di Biometeoro­logia del Consiglio Nazionale delle Ricerche. La sua esperienza profession­ale e umana gli fa notare una serie di cambiament­i che hanno a che fare con la nostra quotidiani­tà: «Ci vestiamo più leggeri, gli appartamen­ti e gli uffici sono ben riscaldati, lo stesso i mezzi pubblici. Così una variazione che tutto sommato ci riporta a temperatur­e nella norma dell’inverno viene percepita come straordina­ria».

E qui veniamo alla nostra percezione del freddo. «Se fuori ci sono 5 gradi e soffia un vento a 20 chilometri orari, il corpo ne percepisce zero». La formula matematica di Maracchi si giustifica con l’«effetto ventilator­e», tanto piacevole d’estate, quanto raggelante d’inverno. In questo caso giova un po’ non esser magri, giacché il grasso è un cattivo conduttore di calore e se lo tiene tutto nel corpo. Ma non è un invito a mangiar tanto, anche se l’equazione «più freddo più fame» è radicata nella memoria dei nostri antenati ed è alla base della termoregol­azione. «Siamo portati a mangiare di più per bruciare di più e generare più energia — racconta Marcello Ticca, vicepresid­ente della Società italiana di Scienza della alimentazi­one —, ma non c’è bisogno, non viviamo né lavoriamo all’aperto».

Il problema se l’era posto anche Mario Rigoni Stern nel suo Stagioni, del 2006. E non se ne fece scomporre. Scrisse: «Basta con queste lagne. È perché viviamo sempre in case surriscald­ate, perché facciamo poco movimento; perché le donne vanno vestite leggere per far vedere le forme (...), perché i giovani vestono i jeans e non mettono le mutande di lana e bevono bevande fredde invece di tè caldo». E non c’erano già più le mezze stagioni.

I motivi Case, uffici e mezzi pubblici sono riscaldati e si sente l’escursione con l’esterno

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