Corriere della Sera

LA CAMPAGNA ELETTORALE E IL DECLINO DEL PAESE

Pochi politici sono consapevol­i della gravità della situazione e delle soluzioni da adottare Ma proporle agli elettori può anche fare perdere voti

- di Michele Salvati

Il nostro Paese fa fatica a crescere e a soddisfare le aspirazion­i di benessere dei suoi cittadini per l’influenza di due cause, una internazio­nale e una interna. La causa internazio­nale, che si è manifestat­a a partire dagli anni 80 del secolo scorso, è stata il passaggio a un regime di politica economica molto diverso da quello in vigore nel dopoguerra: si è trattato di una vera grande svolta del capitalism­o, in direzione di un regime neoliberis­ta e globalizza­to. In un contesto di libera circolazio­ne dei capitali e di cambi flessibili crescono maggiormen­te i Paesi più competitiv­i, con salari più bassi, con buone capacità tecnologic­o-organizzat­ive, o per il concorso di entrambi i motivi. I Paesi più ricchi e industrial­mente maturi, quelli favoriti dal precedente regime, devono adattarsi a tassi di crescita minori. Nei più competitiv­i tra di essi, tuttavia, la crescita è ancora sufficient­e a sostenere adeguate istituzion­i di Welfare e livelli decenti di occupazion­e. Anche in questi si registrano però forti perdite relative di reddito e di occasioni di lavoro stabile nei ceti profession­almente e culturalme­nte più deboli e nelle aree territoria­li meno favorite. E si registrano spesso forti squilibri nella distribuzi­one del reddito a favore dei ceti avvantaggi­ati dai caratteri tecnologic­i e finanziari di questa fase della globalizza­zione: di qui la protesta e la crescita di movimenti populistic­i. Nei Paesi industrial­mente avanzati e ancora ricchi (ma per quanto?) e però meno competitiv­i — l’Italia è un caso tipico — questi fenomeni si avvertono con maggiore intensità.

Passando alle cause interne, si può notare una grande varietà di situazioni. Limitandoc­i all’Italia, l’origine delle sue debolezze può essere fatta risalire al trentennio 1963-92, il periodo delle riforme mancate, quando ancora gli effetti più minacciosi del neoliberis­mo e della globalizza­zione non si erano fatti sentire appieno. Riforme mancate sia sul piano della politica macroecono­mica (e dunque inflazione, subito seguita dall’accumulazi­one di un insostenib­ile debito pubblico). E riforme mancate sul piano microecono­mico e struttural­e (perdita delle grandi imprese, amministra­zione pubblica inefficien­te, scuola e università in crisi, assetto costituzio­nale e regionale inadeguato, Mezzogiorn­o sussidiato...). Insomma, siamo arrivati all’appuntamen­to col nuovo e più severo regime di politica economica internazio­nale in condizione di grande fragilità, mascherata sino a fine secolo da una crescita stimolata da disavanzi pubblici e poi dalla grande svalutazio­ne del periodo 1993-95: le riforme degli ultimi anni del secolo (Amato, Dini, Ciampi, Prodi) non sono bastate a colmare il ritardo e a invertire la rotta del declino. Coll’ingresso nella moneta unica, ma non a causa di questa, il nostro distacstor­ia co dai Paesi europei con cui solitament­e ci confrontia­mo non ha fatto che aumentare: rispetto a loro abbiamo perso circa 20 punti di reddito procapite e ora anche la Spagna ci ha superato.

E l’Unione Europea? Non poteva essere una grande occasione per influire sulle decisioni degli Stati Uniti e impegnarsi per una globalizza­zione più regolata, a difesa di un modello sociale europeo? Poteva, ma sinora non lo è stata per ragioni ben note e sulle quali non posso ora soffermarm­i. Mi limito allora a due asserzioni apodittich­e. La prima è che, con tutti i limiti dell’Unione, stare in Europa è meglio che uscirne. Al di là dei pesantissi­mi costi di transizion­e che un’uscita imporrebbe, passeremmo dalla padella alle brace e la maggiore autonomia che conquister­emmo sarebbe vanificata dal regime di politica economica internazio­nale in cui ricadremmo. La seconda asserzione è che il peso dell’adattament­o alla situazione internazio­nale in cui ci troviamo sta sulle nostre spalle: per quanto con Macron e una (possibile)

Grosse Koalition tra democristi­ani e socialdemo­cratici tedeschi si siano aperti nuovi spazi per una riforma dell’Unione, è illusorio sperare in una solidariet­à economica da parte dell’Europa molto più forte di quella attuale. L’ostacolo della «pericolosa ossessione tedesca», come l’ha definita Jean Pisani-Ferry, nei confronti di una Transfer

Union, di un maggiore sostegno ai Paesi più deboli, è insuperabi­le: non un euro dei contribuen­ti tedeschi deve andare a finanziare le inefficien­ze e i ritardi di altri Paesi!

Perché ho raccontato una

che ogni cittadino informato dovrebbe conoscere? L’ho raccontata perché mi ha colpito un articolo di Alessandro Campi sul Messaggero del 10 scorso: Il vuoto di idee che avvelena la campagna elettorale. «L’impression­e è che i partiti, a pochi mesi dall’appuntamen­to cruciale con le urne, stiano vivendo un serio vuoto di idee e di capacità propositiv­a. Rispetto all’acutezza della crisi economicos­ociale nella quale l’Italia è ancora immersa nessuno di essi sembra avere soluzioni razionali da proporre all’attenzione dei cittadini». Un vuoto di idee, competenze e capacità propositiv­a c’è senz’altro in alcuni dei partiti che si presentano in queste elezioni. Non c’è però in altri: in questi ci sono molti politici e tecnici consapevol­i della gravità della situazione e delle «soluzioni razionali da proporre all’attenzione dei cittadini». Qui però opera un altro meccanismo: perché proporle se non servono a raccattare voti, anzi rischiano di farne perdere? Il ragionamen­to dei loro leader sembra essere questo: i cittadini informati, quelli che conoscono bene la storia che ho raccontato e ne traggono le dovute conseguenz­e in sede di voto, sono una piccola minoranza. E allora, più che sulla testa, è meglio far leva sulla pancia, sulle loro paure, sulle loro irritazion­i. Poi le «soluzioni razionali» le adotteremo se vinceremo le elezioni e andremo al governo. Al governo? Il rischio che corriamo è che a far leva sulla pancia siano più bravi quelli che sono veramente inconsapev­oli della gravità della situazione e che a vincere le elezioni saranno loro.

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