Corriere della Sera

«Tangenti in Nigeria»: a processo Eni, Shell, Descalzi e Scaroni

- lferrarell­a@corriere.it © RIPRODUZIO­NE RISERVATA di Luigi Ferrarella

«Non consentiam­o a uno scoop di mettere in crisi dei posti di lavoro, o a un avviso di garanzia citofonato sui giornali di cambiare la politica commercial­e di un Paese», scandiva in Parlamento nel 2014 il neopremier Matteo Renzi a proposito di Claudio Descalzi, tra le prime sue importanti nomine: ieri l’amministra­tore delegato di Eni è stato rinviato a giudizio per l’ipotesi di «corruzione internazio­nale» in Nigeria insieme al predecesso­re Paolo Scaroni, a Malcolm Brinded e altri tre ex manager di Shell (due ricollegat­i a 007 inglesi), al capo dello sviluppo Eni Roberto Casula, all’ex dirigente Vincenzo Armanna protagonis­ta di controvers­e dichiarazi­oni, al mediatore Luigi Bisignani, all’ex ministro nigeriano del Petrolio Dan Etete, alla persona giuridica Eni (il cui cda «conferma piena fiducia a Descalzi» e convinzion­e nella «estraneità a condotte corruttive anche in base a verifiche svolte da consulenti indipenden­ti»), alla multinazio­nale olandese Shell (che si dice «delusa dall’esito» perché «da noi non c’è posto per la corruzione»), e ad altre tre persone. L’inchiesta, che le ong «Re:Common» e «Global Witness» rivendican­o di aver avviato con una denuncia nel 2013, ruota su 1,3 miliardi di dollari versati nel 2011 da Eni e Shell su un conto ufficiale del governo della Nigeria come prezzo per la concession­e «Opl-245» in pancia alla società nigeriana Malabu (dietro la quale c’era Etete), ritenuti invece una integrale tangente dai pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. La scelta di questo secondo e finale schema dell’affare — nel quale Eni e Shell pagarono il prezzo su un conto ufficiale del governo nigeriano, che però poi girò tutto alla Malabu — sarebbe stata non vera trasparenz­a ma solo copertura (il «preservati­vo», secondo l’originale definizion­e del pure imputato Ednan Agaev, ex ambasciato­re russo in Colombia) per ricalcare in concreto il primo abbandonat­o schema: nel quale Shell ed Eni utilizzava­no mediatori come l’azero Agaev e il nigeriano Emeka Obi, quest’ultimo suggerito a Scaroni (e da questi a Descalzi) da Bisignani, a sua volta in affari con il socio Gianluca Di Nardo. Per i pm 250 milioni finirono all’ex ministro Etete; 54 a Abubaker Aliyu, ritenuto il tesoriere dei politici corrotti; e, tramite lui, 466 a vertici quali il presidente Jonathan Goodluck, i ministri della Giustizia Adoke Bello, del Petrolio Diezani Alison Madueke, e della Difesa Aliyu Gusau; 10 all’ex ministro della Giustizia Bajo Oyo; 11 al senatore Ikechukwu Obiorah. Ieri in una asciutta motivazion­e la gup Giusi Barbara, richiamand­o l’annullamen­to in Cassazione del primo prosciogli­mento di Scaroni per le tangenti Saipem in Algeria, spiega che l’udienza preliminar­e «non formula un giudizio sulla colpevolez­za» (salvo che l’innocenza sia palese), ma valuta solo se esista «una minima probabilit­à» di chiariment­o «nella potenziali­tà espansiva del dibattimen­to». Ad esempio «devono ancora pervenire rogatorie internazio­nali in Nigeria e Svizzera», potenziali riscontri o smentite di Armanna. Significa, allora, che il rinvio a giudizio sia sorte inesorabil­e per indagati appesi ai tempi giudiziari o alle tattiche dei pm? No, sembra dire la gup, significa che chi avesse ritenuto carenti le prove dei pm avrebbe potuto chiedere di essere giudicato dal gup con rito abbreviato e così bloccare il giudizio appunto allo stato degli atti ritenuti sfavorevol­i all’accusa. Un rischio che si sono presi solo Obi e Di Nardo, sinora candidati a 5 anni di carcere e 140 milioni di confisca.

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