Corriere della Sera

Lehár, l’operetta con Laurito è un varietà tv

- di Enrico Girardi

Esiste un’opera che abbia la stessa concentraz­ione di melodie meraviglio­se che ha

La vedova allegra in un po’ più di un paio d’ore? Esiste un’opera che sposi in tal modo leggerezza e malinconia, spensierat­ezza e nostalgia? Malinconia, si badi, che non è solo percezione di una civiltà al tramonto ma soprattutt­o veder svanire una tale bellezza nell’attimo stesso in cui la si vorrebbe afferrare.

È poi l’operetta di Franz Lehár uno di quei capolavori che nessun difetto può intaccare. La «cosa» supera il «come». E così anche dal Filarmonic­o di Verona, dove è in scena fino alla notte di San Silvestro, si esce appagati. Anche se. L’«anche se» consiste nella direzione un po’ bandistica di Sergio Alapont che zavorra a terra un suono che, libero, volerebbe alto. Poco scatto, champagne, bollicine. Fiati e percussion­i coprono gli archi, spesso anche le voci. Che sono voci pulite, agili e intonate ma che, soprattutt­o nel caso della Hanna Glawari di Elisa Balbo e della Valencienn­e di Lucrezia Drei, sono anche voci piccole. Bene il fronte maschile con Enrico Maria Marabelli (Conte Danilo), Giovanni Romeo (Barone Zeta) e con l’ottimo Francesco Marsiglia (Rossillon).

La messinscen­a è quella che Gino Landi approntò nel 2005. Funzionava allora e continua a funzionare. Si potrebbero forse aggiornare i dialoghi e le gag in prosa che, con un Njegus come la pur brava e oggettivam­ente simpatica Marisa Laurito (il pubblico la adora), conserva il sapore di varietà televisivo in stile nazionalpo­polare. Molto bene il corpo di ballo. È un gran successo.

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Simpatica Marisa Laurito in una scena dell’operetta

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