L’omicidio di un neonato nel folle mondo di Bond
L’opera prima di Edward Bond, The Pope’s Wedding, è del 1962. La seconda,
Saved del 1965, infine giunge in Italia, al Vascello di Roma per la regia di Gianluca Merolli. Nato nel 1934 a Londra, Bond divenne subito uno dei drammaturghi che rivoluzionarono il teatro inglese negli anni Sessanta. Ma a differenza di Pinter o di Osborne da noi fu poco o niente affatto accolto.
Durante i centoquaranta minuti senza intervallo di Saved ho cercato di capire le ragioni dello scarso successo di Bond da noi. È la storia di Lenny rispetto a un gruppo familiare (nel quale s’insedia quasi per caso) e a un piccolo clan di coetanei. Costoro sono non proprio quelli che si chiamano teddy boys, sono veri e propri sbandati, ragazzi privi di qualsivoglia educazione e orientamento e alla fine dei puri e semplici delinquenti.
Il punto di gravità della commedia è una scena di lapidazione. Pamela, la ragazza di Lenny, ha avuto un figlio da Fred. Lo porta in giro in carrozzina, ma è come i suoi genitori, Harry e Mary: è distratta, anche lei priva di educazione e orientamento. In ultima analisi, lo stesso Lenny è uguale a tutti gli altri. Non reagisce di fronte al tradimento di Pamela, non reagisce di fronte alla lapidazione di suo figlio: si limita a guardarla da lontano. Ne viene fatto di accettare come un lieto fine che, sempre piazzato in casa di Harry e Mary, da ultimo lo vediamo aggiustare una sedia. Bond si pone fuori del teatro dell’assurdo: «Ma se Saved (disse in un’intervista del 1981) era una macchina fotografica situata in una stanza o nella strada, con Early Morning essa si situa nella testa e si può vedere quello che ci sta dentro: il caos totale, la psicologia politica degli individui di Saved e il loro vivere in un mondo d’incubo con la sua particolare teologia della follia». Lasciando perdere la teologia della follia, decisivo è il termine «politica». Bond è uno scrittore politico. Ma ciò che noi riceviamo con difficoltà o non siamo in grado di ricevere è il linguaggio attraverso il quale la sua politica si manifesta.
È un linguaggio scabro duro, mai ideologico, in alcun modo sentimentale. E se il regista Merolli ha il merito di aver tentato, non ha quello di essere riuscito (era forse impossibile, almeno con gli attori che aveva a disposizione). Merolli è un regista ambizioso. Ha al suo attivo Un gabbiano e Yerma. Si capisce che cerca strade nuove, poco esplorate dal nostro teatro. Ma né il primo né il secondo esperimento erano riusciti; e non è riuscito il terzo. Lo ripeto, era forse impossibile.
Non riesco neppure a immaginare chi in Italia potrebbe. La traduzione, non quella sintattico-lessicale, ma quella che sta sotto a ogni sintassi e a ogni lessico, è l’ostacolo insormontabile. Vi sono culture intraducibili. Tale appare quella di Bond. La nostra lingua, almeno quella contemporanea, è adolescenziale e sentimentale. Non c’è attore, né esperto come Manuela Kustermann, né giovane come Lucia Lavia e lo stesso Merolli, in grado di mutarne il suono.