«Dopo 100 giorni nessuno dice se mia figlia si poteva salvare»
Bari, morta a 12 anni. Il papà: l’ospedale le diede il farmaco che serviva?
La morte in ospedale di una ragazzina di dodici anni. I dubbi e i tormenti del padre e un muro di gomma che impedisce di avere risposte chiare aumentando la sua disperazione. «Mia figlia Zaray è morta cento giorni fa e io non ho capito perché, ma soprattutto non ho capito se poteva essere salvata».
Fino ad ora non sono bastate tre interrogazioni parlamentari, un’interrogazione in Consiglio regionale, una commissione dell’ospedale (nominata tardi e il cui rapporto è stato secretato), una richiesta di accesso agli atti e l’inchiesta della magistratura (due medici sono attualmente indagati) per dare una risposta a Massimo Coratella, 46enne barese, padre adottivo di Zaray.
Questa storia inizia il 15 settembre scorso a Bari. Quando, per una frattura scomposta al femore, la ragazzina viene portata prima al Policlinico e poi al Pediatrico Giovanni XXIII. «Qui — racconta Coratella — dopo quattro giorni viene sottoposta a un intervento per la riduzione della frattura. Dopo un’ora il chirurgo esce dalla sala operatoria e mi fa il segno del pollice alzato: tutto è andato bene». Ma in realtà Zaray non si risveglierà più e morirà alle 15.30 del 19 settembre. «Dal sollievo per quel pollice alzato alla disperazione. Da quel momento la mia vita si è trasformata nel tentativo di rimanere a galla in un mare di dubbi e strazi. Cerco invano di capire cosa è successo». La spiegazione ufficiale è l’ipertermia maligna: un fenomeno infiammatorio, raro, di origine genetica, scatenato dai gas anestetici.
Zaray era nata in Colombia. A sei anni fu adottata da Massimo e da sua moglie Paola. E per questo mancava una storia medica che avrebbe potuto segnalare il rischio di predisposizione alla malattia. L’ipertermia, però, non è letale se diagnosticata in tempo e se si somministra il farmaco giusto: il Dantrium (dantrolene sale sodico), che deve essere presente nei blocchi operatori. C’era quel giorno? Nessuno — è il tormento di Massimo — in cento giorni è stato in grado di rispondere a queste semplici quesiti: il dantrolene era a disposizione dell’anestesista? Lo era nella giusta quantità? E poi una terza domanda: «Le è stato somministrato nelle dosi necessarie?».
Quest’ultima forse è più complicata, ma per rispondere alle prime due sarebbe sufficiente dare un’occhiata ai registri della farmacia. E allora Coratella, di professione commercialista, presenta una richiesta di accesso agli atti. «Ero in lacrime il 6 dicembre scorso, quando ho chiesto di esaminare i registri di uscita della farmacia del Policlinico», funzionalmente collegato al Pediatrico. Risultato? I trenta giorni previsti dalla legge sono trascorsi invano. Poi, in ritardo, è arrivata anche la risposta dell’ufficio relazioni col pubblico. Con un difetto però: «Non si capisce niente», dice Coratella. In violazione della norma che prevede «la semplicità di consultazione e la comprensibilità». «Io — aggiunge — dovrei essere in grado di interpretare codici e cifre». In estrema sintesi, comunque, risulterebbe la presenza del medicinale nella farmacia dell’ospedale, almeno il giorno prima dell’intervento.
I dubbi di Coratella sono concentrati sul dantrolene perché nella cartella clinica sequestrata dal pm Bruna Manganelli della Procura di Bari il farmaco comparirebbe solo nel reparto di rianimazione, quindi molto dopo il presumibile insorgere dell’ipertermia. Fatto sta che dopo cento giorni questo padre ancora non sa se sua figlia è morta per colpa della malasanità o del destino, ma sa di essere tramortito dalla malaburocrazia.