Trump, blocco finito
Donald Trump trasformerà il podio WASHINGTON di Davos in un piedistallo per rivendicare i successi del primo anno di presidenza. Il taglio delle tasse «più grande della storia», la creazione «di 2 milioni di nuovi posti di lavoro in un anno», il boom della Borsa, le grandi imprese che tornano a investire negli Stati Uniti. Semplicemente un modello per il mondo.
Stando alle indiscrezioni raccolte a Washington, sarà questo il nerbo del discorso che l’ospite più atteso e controverso pronuncerà venerdì 26 gennaio, al «World Economic Forum».
Negli ultimi giorni la partecipazione di Trump era rimasta appesa allo «shutdown», la paralisi del governo centrale. Ma ieri il Senato ha sbloccato la situazione, almeno fino all’8 febbraio. Ora democratici e repubblicani cercheranno un’intesa su immigrazione e sicurezza. Intanto tornano al lavoro i 692 mila dipendenti pubblici, un terzo del totale, che erano stati messi in congedo temporaneo. Riaprono gli uffici federali, i parchi nazionali, i musei e anche la Statua della Libertà a New York. «The Donald» può partire. Nella cittadina svizzera, Trump confermerà l’allergia ai trattati economici multilaterali, rimarcherà l’intenzione di ridurre «gli enormi» deficit commerciali accumulati praticamente con tutti i Paesi del mondo, in particolare la Cina. Poi metterà in luce i risultati fin qui conseguiti. La riforma tributaria che essenzialmente significa riduzione dell’aliquota sugli utili di impresa dal 35 al 21% e lo scudo fiscale per il rientro dei capitali.
L’élite finanziaria mondiale, però, si troverà di fronte a una formula inedita.
Il trumpismo si presenta come l’assemblaggio di idee e politiche di varia provenienza, di solito contraddittorie. Così l’alleggerimento fiscale di ispirazione liberista (riduzione delle tasse per rilanciare investimenti e consumi) convive con un massiccio piano neokeynesiano di spesa pubblica per finanziare le infrastrutture e non solo.
Trump si fermerà alla superficie smaltata della sua politica economica, una sommatoria, un «sincretismo ideologico» che mette insieme gli appetiti di Wall Street, le attese delle grandi corporation manifatturiere (auto e industria pesante in testa), le spinte dei costruttori.
Vedremo se la platea di Davos ragionerà anche sui costi. L’erario federale perderà 1000 miliardi di gettito in dieci anni, considerando anche il recupero di imposte legato alla crescita. Nello stesso tempo, i centri studi più conservatori di Washington temono l’esplosione della spesa pubblica. Secondo la stima della «Heritage Foundation», le uscite saliranno di 91 miliardi di dollari quest’anno e altri 91 nel 2019. Il triplo rispetto al 2017 e il doppio rispetto al 2016, gli ultimi anni di esercizio dell’amministrazione di Barack Obama.
Gli aggravi si scaricheranno sul debito Usa, che è già pari a 20 mila miliardi di dollari, circa il 125% del Pil. Una realtà finanziaria con l’impatto più «globalista» nel mondo, anche nell’era dell’«America First».