Davos, tra europei e Usa la sfida del protezionismo
SCENARI IL COMMERCIO MONDIALE
Se l’ego degli esseri umani fosse DAVOS materiale esplosivo, per una settimana all’anno Davos sarebbe più pericolosa dei depositi nucleari della Corea del Nord. Fino a venerdì sfileranno al World Economic Forum decine di leader e in quasi tutti loro il narcisismo personale sarà impossibile da districare dal (legittimo) amor proprio nazionale.
Oggi tocca a Narendra Modi, il premier nazionalista che cerca di portare in India il sistema sempre più in voga della democrazia plebiscitaria dell’uomo forte. Sarà lui il primo a rivolgersi alla folla di quasi duemila multimilionari, spesso a nove cifre, e qualche decina di miliardari. Ma dall’inizio, la settimana di Davos ha in programma una sfida talmente evidente che nessuno ha ancora osato dichiararla: quella fra leader della zona euro sempre più assertivi, ora che l’economia dell’area cresce quasi del 3%, e Donald Trump. Il presidente degli Stati Uniti ha fatto sapere che venerdì verrà fra le nevi di questo villaggio svizzero per spiegare il senso dello slogan con il quale è entrato alla Casa Bianca: «America First», per Trump, significa ridisegnare il posto del proprio Paese nel mondo e ridurne le responsabilità verso tutti gli altri. In questi dodici mesi la sua Casa Bianca in effetti ha fatto saltare ogni negoziato commerciale multilaterale, per affrontare ogni altra economia da sola: niente Ttip, il patto che avrebbe dovuto creare una zona di libero scambio transatlantica; e stop anche alla Transpacific Partnership, l’accordo commerciale con dodici Paesi dell’Asia e del Pacifico (Cina esclusa) che l’America di Barack Obama aveva cercato inutilmente di chiudere prima che fosse tardi.
Oggi sugli scambi gli slogan della Casa Bianca, almeno quelli, suonano diversi. La fiducia nell’apertura delle frontiere è scomparsa dalla retorica ufficiale: Trump ha denunciato il Nafta, l’equivalente nord-americano del Mercato unico europeo, in queste settimane è impegnato a rinegoziarlo e non è escluso che lo faccia saltare dichiarando l’uscita degli Stati Uniti. Quanto ai rapporti commerciali con Pechino, anche quelli sono entrati nella fase più delicata: si avvicinano le scadenze entro cui l’America potrebbe alzare tariffe contro l’acciaio cinese, mentre le accuse di furto di proprietà intellettuale possono portare tra poco a un muro di dazi americani contro i gadget digitali della Repubblica popolare.
Se questo è il piano dell’uomo che parla a Davos venerdì, il compito di domani per Paolo Gentiloni, Emmanuel Macron e Angela Merkel sembra quasi scontato: i leader di Italia, Francia e Germania avranno gioco facile nel rassicurare la platea. Hanno voluto esserci, lo stesso giorno, per garantire il loro impegno a tenere aperti i mercati del mondo e farsi applaudire per questo. Non è mai difficile se dall’altra parte c’è Donald Trump. Un anno fa persino il presidente iperstatalista cinese Xi Jinping è stato accolto come un campione della libertà economica.
Poi però qualcuno dei delegati di Davos guarderà i numeri, e forse sarà preso dai dubbi. La zona euro dal 2010 ha una sola costante che accomuna quasi tutti i suoi Paesi: sottrae domanda ai mercati mondiali, accumulando surplus e dunque crediti sempre più alti negli scambi di ogni tipo con il resto del mondo. L’avanzo esterno complessivo dell’area, a più di 400 miliardi di dollari, è ormai quasi il quadruplo di quello cinese e sale sempre, in ripresa come in recessione. L’Olanda da sola sfiora i volumi di surplus di Pechino. Da Palermo ad Amburgo, un’area immensa sfrutta la domanda del resto del mondo, tenendo depressa la propria. Senza gli acquisti dall’America «protezionista» di Trump, con i suoi deficit esterni da 450 miliardi di dollari, l’area euro rischia un’altra recessione. Ma forse, a Davos, Merkel questo non lo dirà.