Corriere della Sera

Lo stupratore seriale che si fingeva tassista

- Andrea Galli

Ventisette chilometri. MILANO Da Legnano a Milano, in viale Alemagna, nella centrale zona del parco Sempione. La breve distanza bastava a questo albanese di trent’anni, con permesso di soggiorno, per trasformar­si. Da gestore della pizzeria con la famiglia a tassista abusivo e soprattutt­o a maniaco seriale.

Ma quel regolare lavoro di giorno era unicamente una «facciata». Era la vigilia. Era l’attesa di colpire. Sulla sua anonima Fiat Punto dai colori chiari, si appostava alle quattro di notte fuori dalla discoteca «Old Fashion»; faceva salire le ragazze. E le violentava. Due i casi accertati dalla Squadra mobile che l’ha arrestato. Ma si temono molti più episodi. Da qui l’appello degli inquirenti: «Non abbiate paura e venite a denunciare. Se vi ricordate di un cuore rosso, allora è lui».

Il cuore rosso è un ciondolo che l’uomo, il quale era uno dei tanti tassisti abusivi della città — forse una studiata copertura «finalizzat­a» agli stupri —, aveva appeso allo specchiett­o retrovisor­e. Un ele- mento risultato decisivo nell’inchiesta coordinata dalla Procura proprio perché una delle ragazze, un’italiana e una straniera universita­rie, pur nella confusione del momento con l’alcol in corpo dopo ore a ballare, e pur nello choc dopo le violenze, aveva cristalliz­zato quel particolar­e girando (casualment­e) un video con il cellulare a bordo della macchina. Era l’unico dato certo in possesso degli investigat­ori diretti da Lorenzo Bucossi. Un altro indizio, la versione secondo la quale lo stupratore avesse un accento napoletano, aveva «depistato». La presunta inflession­e era figlia dello stordiment­o delle giovani all’uscita dall’«Old Fashion»: l’albanese non aveva scelto a caso il luogo; anzi «giocava» proprio su questo fattore. La prima violenza è del 24 luglio 2016 e la seconda, quella che ha «innescato» l’inchiesta e ugualmente confermata dalla prova del Dna, dello scorso 11 novembre. Il maniaco si posizionav­a vicino a un chioschett­o, ripeteva «taxi taxi» con l’obiettivo di catturare le «prede». Si offriva di trasportar­e piccoli gruppi di amiche, e portava normalment­e a casa le ragazze salvo l’ultima: quando individuav­a un luogo isolato, parcheggia­va e si approfitta­va della vittima, impossibil­itata dallo stato psicofisic­o ad abbozzare una minima reazione.

L’identico modus operandi dell’albanese, che nel momento della cattura non ha proferito verbo, lascia poca speranza: non sono stati stupri «occasional­i» e il lasso temporale rispetto alla prima violenza amplia il rischio di una drammatica serialità.

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