LA RIVOLTA SENZA PADRI
Mario Avagliano e Marco Palmieri rievocano in un saggio (il Mulino) le gravi tensioni politiche del 1948, culminate negli spari di Antonio Pallante al leader comunista. Seguirono in tutto il Paese disordini che provocarono sedici morti L’ATTENTATO A TOGLI
Il 1° gennaio del 1948 in Italia entrò in vigore la Costituzione repubblicana. Quello stesso giorno Pietro Nenni, leader dell’unico partito socialista europeo di una certa grandezza legato in un Fronte popolare a quello comunista, scrisse sull’«Avanti!» che era giunto il momento di «adeguare il 1948 al 1848». La Democrazia cristiana raccolse la sfida implicita nel richiamo nenniano agli eventi rivoluzionari di un secolo prima e diede alle stampe un manifesto dove comparivano l’aquila asburgica accanto a «1848» e la falce e martello vicina a «1948». Lo slogan del cartellone Dc era: «Allora contro lo straniero/ oggi contro la tirannia». La sinistra rispose con un poster da cui si affacciava Giuseppe Garibaldi che si rivolgeva al leader trentino con queste parole: «Bada De Gasperi, che nessun austriaco me l’ha mai fatta». Iniziava la sfida: i socialcomunisti, nel nome appunto di Garibaldi, il 18 aprile del 1948 cercavano di travolgere la Dc alle prime elezioni politiche del secondo dopoguerra. E di punire in tal modo Alcide De Gasperi, che un anno prima li aveva cacciati dal governo. Il risultato di quella consultazione elettorale — precisano Mario Avagliano e Marco Palmieri in 1948. Gli italiani nell’anno della
svolta di imminente pubblicazione per i tipi del Mulino — non era affatto scontato. Sulla base dei risultati di precedenti turni di amministrative, comunisti e socialisti credevano di poter agevolmente sopravanzare la Dc. Invece lo scrutinio assegnò a sorpresa un trionfo alla Dc (che ottenne la maggioranza assoluta dei seggi), e decretò l’insuccesso di Pci e Psi, distanziati di quasi 20 punti.
Tre mesi dopo, il 14 luglio, un giovane siciliano iscritto al Partito liberale, Antonio Pallante (squilibrato e senza mandanti), attenta alla vita di Palmiro Togliatti mentre sta uscendo, assieme a Nilde Iotti, da un portone secondario di Montecitorio. Il leader comunista resta per qualche ora tra la vita e la morte e durante quel lasso di tempo si ha l’impressione che socialisti e comunisti possano cogliere l’occasione per cercare nella piazza una sanguinosa rivincita delle elezioni perdute. Torna d’attualità l’evocazione rivoluzionaria di Nenni. L’allarme è grande anche sul piano internazionale: Stalin definisce l’attentato «brigantesco» e velatamente polemizza con il Pci, accusandolo di non aver saputo proteggere il suo leader; l’ambasciata americana informa Washington che la morte del segretario comunista è «prossima» e riferisce che è stato suggerito ai cittadini di non lasciare Roma per il Nord dove «la loro vita sarebbe stata a rischio».
Cosa succede davvero quel giorno? La Cgil di Giuseppe Di Vittorio (appena rientrato da una conferenza sindacale a San Francisco) proclama immediatamente lo sciopero generale. La decisione «politica» della Cgil provocherà recriminazioni da parte dei sindacalisti cattolici guidati da Giulio Pastore i quali provocheranno una spaccatura definitiva del sindacato. Socialdemocratici e repubblicani decideranno però, in quel frangente, di restare nella Cgil, ritenendo che solo dall’interno si sarebbe potuto «tentare di strappare le masse ai comunisti». Radio Mosca trasmette un ambiguo comunicato nel quale quasi incita all’insurrezione e Celeste Negarville successivamente ammetterà essere stata una «leggerezza» di qualche non identificato dirigente del partito interpretare quel che era stato detto nella trasmissione radiofonica russa alla stregua di una «direttiva». Di qui un’ondata di manifestazioni più o meno spontanee, scontri con la polizia e anche qualcosa di peggio. Finché Togliatti, riavutosi grazie a un intervento chirurgico miracoloso di Pietro Valdoni, richiamerà i suoi all’ordine. E questi rientreranno — non senza qualche mugugno — nelle ore in cui la radio annuncia l’insperata vittoria di Gino Bartali in alcune tappe di montagna del Tour de France: un giornale della gioventù cattolica titola Bartali ha battuto Di Vittorio. Giulio Andreotti, anni dopo, definirà, però, «un’esagerazione» l’attribuzione al ciclista del merito «di aver evitato all’Italia la guerra civile».
I dirigenti del Pci in quelle ore vengono presi alla sprovvista. A sorpresa, tra i meno esagitati troviamo il duro Pietro Secchia, che cerca di frenare la deriva insurrezionalista con queste parole: «Non dimenticate compagni che siamo a soli due mesi e mezzo da elezioni che hanno dato una maggioranza assoluta al governo». Secchia proverà in seguito a rinfrancare i manifestanti accennando ad una «simpatia di larghi strati della popolazione» attestata dalla grande quantità di serrande abbassate. Ma un iscritto savonese, Gerolamo Assereto, gli risponderà
Esce in libreria giovedì 25 gennaio il libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri 1948. Gli italiani nell’anno
della svolta (il Mulino, pagine 452, 25). Il volume sarà presentato a Roma dagli autori il 2 febbraio nella sede della Associazione Civita (piazza Venezia 11). L’incontro avrà inizio alle ore 18. Parteciperanno Adolfo Battaglia, Giorgio Benvenuto, Aldo Cazzullo e Simona Colarizi. Modera Ruggero Po. L’attentato a Togliatti è stato oggetto di diversi studi: Walter Tobagi, La rivoluzione
impossibile (il Saggiatore, 1978); Massimo Caprara, L’attentato a Togliatti (Marsilio, 1978); Giovanni Gozzini, Hanno sparato a Togliatti (il Saggiatore, 1998); Gigi Speroni, L’attentato a
Togliatti (Mursia, 1998). Da segnalare anche le biografie del segretario comunista scritte da Giorgio Bocca (Laterza, 1973) e da Aldo Agosti (Utet, 1996). (ma. b) con una lettera all’«Unità» scrivendo: «Almeno per quanto si riferisce a Savona, gli esercizi pubblici sono stati chiusi, nella quasi totalità, non per solidarietà con lo sciopero generale, ma per il timore che la massa eccitata danneggiasse negozi e proprietari».
Il fuoco rivoluzionario — a quel che si può desumere dalla copiosa documentazione del libro — si accese spontaneamente. Per autocombustione. In settant’anni di ricerche anche molto minuziose non è stato identificato il nome di un solo dirigente nazionale del Pci che abbia dato il via alla rivolta. Neanche in sede locale. Si moltiplicano — subito dopo l’attentato — i paragoni con l’uccisione per mano fascista nel 1924 di Giacomo Matteotti, le accuse alla Dc di aver creato un clima d’odio responsabile di aver «armato» la mano dell’attentatore, ma nomi di leader che avrebbero dato il «la alla rivoluzione» non sono venuti fuori. Il gappista Rosario Bentivegna racconterà di aver ricevuto alla federazione del partito a Sant’Andrea della Valle l’ordine di «occupare il ministero degli Interni». Lo stesso riferirà l’italianista Carlo Salinari. I due saranno però in grado solo di indicare il nome di chi era stato a fermarli: un alto dirigente del loro stesso partito, Edoardo D’Onofrio. E di aggiungere che in loro presenza D’Onofrio aveva sgridato Mario Mammuccari e Otello Nannuzzi per aver consentito che fossero date talune disposizioni «rivoluzionarie». Da chi? Non si sa.
Si sa invece che tra i donatori di sangue per Togliatti c’erano stati anche un parlamentare Dc, Angelo Perini, e un frate cappuccino. Il socialdemocratico Carlo Andreoni che il 13 luglio (ventiquattr’ore prima del colpo di pistola di Pallante) dal giornale del proprio partito aveva suggerito di «inchiodare al muro del loro tradimento Togliatti ed i suoi complici» e di procedere in tal senso «non metaforicamente», viene costretto dal suo leader, Giuseppe Saragat, a di-
Bibliografia L’anno che vide il trionfo della Dc mentre infuriava la guerra fredda