Gifuni, così vicino e così lontano dai suoi eroi
In ordine di tempo, Sigmund Freud è l’ultima sfida del talento polimorfo, instancabile, sorprendente di Fabrizio Gifuni. Tra le esperienze teatrali degli anni passati, il lungo lavoro su Carlo Emilio Gadda mi sembra il precedente più importante. L’insigne nevrotico milanese e l’interprete dei sogni sono due splendidi esemplari della stessa civiltà borghese, il cui declino conclamato e irreversibile fu anche un’età dell’oro. Ma poi, ogni spettacolo è un’avventura a parte, una configurazione di gesti, intonazioni, significati mai prima sperimentata. Penso che l’aspetto più interessante del lavoro di Gifuni sui personaggi che derivano da un modello reale sia la loro totale autonomia estetica. A una fase di documentazione molto rigorosa (libri, materiali audiovisivi disponibili...) segue un processo di immedesimazione così intenso da lasciarsi alle spalle ogni tentazione semplicemente mimetica. L’ambizione, che potrebbe apparire addirittura sconsiderata, è quella di una credibilità totale, della presenza scenica e dei contenuti linguistici. È come se, procedendo sul suo cammino, Gifuni si fosse reso conto dei limiti pericolosi di qualunque forma di imitazione. Se imito qualcuno, non posso che costringere lo spettatore a confrontarsi continuamente con il mio modello. Finisco, insomma, per essere la causa di una perpetua distrazione, non smettendo mai da alludere a qualcosa che è fuori dai confini dello spettacolo. Ebbene, Gifuni (si pensi al suo indimenticabile Pasolini) risolve l’impasse facendo del modello reale qualcosa di perfettamente equivalente a un essere umano inventato, a un personaggio nato dal nulla, al quale concediamo tutta la nostra fiducia. Varcata una certa soglia, la nuova incarnazione divora il suo presupposto, tutto ciò che possiamo saperne è lì, di fronte ai nostri occhi. Se posso essere indiscreto, qualche settimana fa ho avuto il singolare privilegio di assistere a un momento di elaborazione, ancora molto iniziale, di questo nuovo ruolo. Mi sono offerto di aiutare Gifuni con la semplice memoria del lungo e complesso copione di Massini. Era come osservare uno scultore che sbozzasse appena, con rapidi colpi, una materia ancora informe. Ma il tocco, anche in una fase preliminare, è pur sempre quello dell’artista, inconfondibile anche nell’incertezza. E a un certo punto, in modo quasi accidentale, me lo sono visto davvero davanti, il Freud di Gifuni. Ci posso mettere la mano sul fuoco: quello che vedremo a teatro, sarà tutt’altro che un documentario in costume.