IL DIALOGO CON PUTIN E LE REGOLE DA RISPETTARE
Est-Ovest La presidenza italiana dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce) può svolgere nel 2018 un ruolo politicamente importante
L’Italia avrà per tutto il 2018 la presidenza dell’Osce, l’Organizzazione per la Sicurezza e Cooperazione in Europa, che ha sede a Vienna e a cui partecipano tutti i Paesi europei con gli Stati Uniti e il Canada. Dell’Osce si parla soprattutto in relazione agli echi delle missioni di monitoraggio condotte in Paesi «difficili». Talvolta viene anche confusa con l’Ocse (che invece sta a Parigi e si occupa di economia), ma considerare questo impegno come routine — buono magari per qualche grancassa elettorale — sarebbe un errore.
L’Osce è erede dell’omonima conferenza (la Csce), che nel 1975 segnò a Helsinki il passaggio dal confronto alla coesistenza fra i due blocchi in Europa. Lo scambio politico sottostante l’«Atto Finale» con cui si concluse — riconoscimento dell’influenza sovietica da un lato, apertura in materia di libertà e democrazia dall’altro — fu criticato all’epoca come un cedimento in nome della realpolitik kissingeriana agli interessi di Mosca. E tuttavia, il capitolo (il «secondo cesto») relativo ai diritti umani si rivelò un grimaldello capace di accelerare la dissoluzione dell’Urss. Col crollo del Muro, l’obiettivo di ampliare i margini di intesa fra blocchi non più conflittuali cambiò di segno e, nel 1990 a Vienna, la «Carta di Parigi» indicò nella Csce (con un significativo apporto dell’Italia) il luogo deputato ad accompagnare la transizione degli ex Paesi socialisti verso una democrazia condivisa. Era stato immaginato un percorso di anni e si concluse invece nel giro di mesi: la «fine della storia» aveva risolto il problema con la supremazia dell’Occidente. Il che non impedì — l’entropia delle relazioni internazionali vince quasi sempre — che un paio d’anni dopo, la Conferenza si trasformasse in una organizzazione permanente, con ramificazioni in varie capitali.
Gli strumenti della Carta di Parigi per promuovere le libertà civili e lo sviluppo democratico si sono rivelati a volte utili, e a volte meno, nel governare lo scardinamento dell’ex impero sovietico. Dalla mediazione fra Armenia e Azerbaigian sul Nagorno-Karabagh (frutto di una ormai dimenticata iniziativa italiana), via via attraverso la Georgia, la Moldova e gli scissionismi vari, sino a impattare nella palude ucraina. Il tutto in un quadro politicamente fragile: il tentativo di Putin di fare dell’Osce un foro di concertazione paneuropeo in cui recuperare un ruolo paritario (riprendendo vecchie idee di Mitterrand) si scontrò con l’ostilità americana e le diffidenze europee. La Nato e l’Ue bastavano da sole, si sostenne, per promuovere i valori condivisi di sicurezza e cooperazione, senza sovrastrutture di difficile maneggio e incerta utilità.
La «fine della storia» non ha tardato a rivelarsi illusoria. I vincitori si sono trovati a fare i conti con il revanscismo degli sconfitti, mentre in Russia l’assorbimento dei modelli occidentali non ha voluto dire rinuncia a recuperare ruolo e influenze perdute. Le tensioni sono tornate a presentarsi, non più in termini ideologici ma seguendo sotto altre forme la vecchia linea di faglia fra Est e Ovest. L’Osce ritorna così di attualità: l’«ambiguità costruttiva» dell’Atto Finale che permise il trionfo dei principi di libertà e indipendenza senza mettere in discussione quello di sovranità potrebbe ora — rivisitata — diventare un mezzo per cercare di dirimere nodi che corrono il rischio di farsi inestricabili: dal rapporto fra integrità territoriale e autonomia in Ucraina e in Crimea, al freno alle pulsioni separatiste altrove, al primato dei valori democratici e dei diritti umani ovunque. Non si tratta di rimettere in discussione conquiste irrinunciabili e a lungo perseguite, bensì di introdurre quel tanto di flessibilità necessaria al loro ulteriore consolidamento. Alla presidenza italiana si apre la possibilità di svolgere un ruolo politicamente non banale, con un approccio articolato che richiami Putin alle regole del gioco, senza ottimismi esagerati e senza nulla togliere al ruolo di Nato e Ue nella comune sicurezza.
La Csce/Osce ha funzionato in Europa, perché ha ampliato i margini di intesa di un confronto che era ormai stabilizzato. L’Italia ha in più occasioni cercato di riproporre questo modello per il Mediterraneo, dove però la situazione è opposta e dovrebbe svolgere la funzione di prodromo, e non già di conseguenza, di un’intesa da definire. Per tale ragione, i tentativi non hanno avuto successo in passato e non potrebbero averne adesso; riprovarci sarebbe un altro buco nell’acqua.