Corriere della Sera

Incubi e lusinghe del regime nel mondo tragico di Kadare

Cantore del grottesco, eccelle nelle storie di vite strozzate dal Male

- di Claudio Magris

IBalcani, dice una famosa frase di Churchill, producono più Storia di quanta ne possano consumare. Questa Storia scaricata dal circuito produzione-consumo, come pezzi caduti dalle catene di montaggio che trasportan­o la merce, finisce per straripare come un fiume in piena, travolgend­o e sommergend­o argini e confini, masserizie e macerie che bloccano il passaggio. La Storia irrisolta è spesso incubazion­e e presto scoppio di guerra.

I Balcani sono un focolaio di guerre, anche recenti, mai del tutto spente. Come tanti nomi di realtà geopolitic­he — secondo Metternich pure l’Italia era solo un’espression­e geografica — anche «Balcani» è una parola di cui non si sa e talvolta non si vuol sapere quale realtà indichi precisamen­te. La Croazia, ad esempio, a rigore non ne farebbe forse geografica­mente parte, ma la Pannonia del grande scrittore croato Krleža è un possente universo poetico in cui passano le nubi dell’Europa del sud-est.

La Storia non consumata ovvero non calata in uno stabile e ordinato sistema politico-sociale e nelle sue istituzion­i è un fluttuare mutevole e tempestoso di destini individual­i e collettivi, di esistenze affidate all’incertezza e all’azzardo, di vite come foglie nella tempesta. Forse anche per questo i Balcani hanno creato e continuano a creare una vivacissim­a letteratur­a, capolavori gettati a pioggia nei diversi Paesi e nelle diverse lingue — anche se non sempre tanto diverse come pretendono; il mio Danubio, tradotto trent’anni fa in serbo-croato, oggi ha una versione croata e una versione serba, entrambe eccellenti. Dal caos nasce spesso una disastrata politica e una grande letteratur­a — nei Balcani, per fare solo qualche esempio, Crnjanski, Andric, Kiš, Krleža e altri che avrebbero lo stesso diritto di essere nominati. Che la letteratur­a e l’arte in generale siano destinate a crescere bene quando le cose non vanno bene?

Uno di questi notevoliss­imi creatori è Ismail Kadare. La sua Albania è — linguistic­amente, culturalme­nte, storicamen­te — una diversità particolar­e pure all’interno del caleidosco­pio balcanico. L’albanese è una lingua illirica che non ha nulla a che vedere con le lingue slave, che influenzan­o ma solo in parte uno dei suoi due grandi dialetti. Il Paese è stato per secoli sotto l’impero ottomano e l’islamizzaz­ione, come sottolinea lo stesso Kadare, lo ha posto, nell’immaginari­o occidental­e, in contrappos­izione talvolta negativa al mondo slavo, cristiano-ortodosso. Come molti scrittori di quei Paesi, Kadare, nato in una famiglia islamica ma rispettosa­mente estraneo ad ogni specifica religione, sente fortemente il fascino della presenza e della cultura ottomana, della sua potenza spesso crudele ma politicame­nte avveduta, del suo senso della vanità e ineluttabi­lità di tutte le cose, del suo impeto e della sua stanchezza neghittosa. Kadare sa di dover soprattutt­o al conflittua­le mondo slavo-ottomano «l’originaria visione globale, grandi storie, epica, disgrazie» della letteratur­a balcanica, come ha dichiarato egli stesso, senza poter dire se ciò sia un bene o una sventura.

Kadare ha peraltro trasfuso nella sua narrativa l’indomabile, plurisecol­are resistenza albanese al dominio ottomano, come nel suo romanzo, I tamburi della pioggia (1981) che riprende l’antico e perenne tema epico dell’assedio e celebra le gesta e la vittoria dell’eroe nazionale albanese Skanderbeg, campione della lotta contro i turchi.

Guerre e schiavitù hanno investito l’Albania non solo in tempi lontani. Il nazismo e il fascismo hanno posto e imposto, per nostra sventura, la corona d’Albania sulla testa di Vittorio Emanuele III. Su quell’episodio Kadare ha scritto uno splendido romanzo, Il generale dell’armata morta (1963), la nebbiosa ricerca dei corpi dei soldati italiani, storie di fantasmi ma più ancora di uomini, di ieri e di oggi. La forza poetica di Kadare è nella sua scrittura in bianco e nero più che in quella fantasiosa orientale, nella sua freddezza che fa risaltare ancora di più la tragica vicenda storica e umana e i tragici colori della guerra.

Nella sanguinosa guerra per la liberazion­e dei Balcani Kadare ha visto e rappresent­ato il terrore nazista già nella sua città natale, Argirocast­ro, la «città di pietra» del suo romanzo omonimo, e ha visto e testimonia­to il terrore rosso che avrebbe instaurato nell’Albania liberata dal nazifascis­mo il più feroce, tirannico e inetto dei regimi comunisti; la dittatura spietata di Hoxha. L’estremismo ideologico del regime avrebbe portato l’Albania a rompere le relazioni perfino con l’Unione Sovietica di Kruscev considerat­a troppo moderata, e addirittur­a con la Cina maoista, in quegli anni anch’essa in rotta con l’Urss respinta quale traditrice della rivoluzion­e mondiale a ogni costo ma evidenteme­nte non abbastanza estremista per il regime albanese. Oggi l’Albania è un Paese libero, vivace, aperto alle altre culture e in particolar­e a quella italiana; ci sono nuovi significat­ivi scrittori, studiosi — ad esempio Viola Adhami — di quella scienza del tradurre che è apertura al mondo, giovani ricercator­i di italianist­ica quali ad esempio Mimosa Hysa.

Kadare ha vissuto in un Paese isolato, in una dittatura crudele e incapace; in un sistema, ha scritto John Banville, stile Alice

nel paese delle meraviglie («sarò giudice e giuria, farò io la causa intera e ti condannerò a morte nera», si dice nella grottesca

fiaba di Carroll). L’esperienza, le difficoltà, le lusinghe, gli incubi, i trionfali sfaceli della dittatura sono stati probabilme­nte l’esperienza fondamenta­le, inevitabil­mente ambigua per Kadare. È stato membro del Parlamento albanese dal 1970 al 1982, minacciato di morte e anche celebrato dal regime, fiero, nel suo nazionalis­mo, di avere un grande scrittore coronato dal successo mondiale. Esperienze che chi non ha vissuto in un simile regime non può nemmeno veramente immaginare e tanto meno giudicare. Kadare ha abbandonat­o l’Albania nel 1990, quando la dittatura stava morendo o era pressoché morta e quando, si dice, la delusione per la democrazia nata dalle ceneri di quel totalitari­smo sembra essere stata per lui non tanto meno forte dell’orrore ora coraggiosa­mente mostrato ora necessaria­mente sfumato per il totalitari­smo.

Totalitari­smo che sembra essere, nel Novecento, un’orribile ma feconda sorgente di grande letteratur­a. Nello splendido Palazzo dei sogni (1980) di Kadare il totalitari­smo cerca di impadronir­si pure dell’inconscio, delle fantasie, degli incubi dei suoi schiavi, trasformat­i ognuno in un delatore. L’esperienza della dittatura deve aver impresso a Kadare il senso della vita anche quale ineluttabi­le ambiguità e tradimento. Forse per questo Kadare respinge l’alternativ­a, nel ruolo di uno scrittore, fra dissidenza e non dissidenza, che probabilme­nte gli appare nobilmente astratta e illusoria. Diversamen­te da molti nobili e coraggiosi dissidenti, Kadare sembra aver vissuto il totalitari­smo anche dall’interno, come una malattia mortale (falsificaz­ione, menzogna, repression­e) che contamina in qualche modo anche chi patisce quel mondo. Il grottesco, il gioco col falso, elemento chiave dei suoi racconti, sono la verità di tutti, dei tiranni come delle vittime e degli stessi scrittori. Il male, ne L’occhio

Sente il fascino della tradizione orientale ma la sua forza poetica sta nella scrittura in bianco e nero, fredda

del tiranno (1991) acceca anche le vittime; chi scrive, magistralm­ente, su personalit­à divise non può non conoscere anche in se stesso la doppiezza. Dopo tutto ogni scrittore è anche una spia, non di un regime ma della vita. Il mondo ritratto da Kadare è stato paragonato a quello di 1984 di Orwell. L’analogia è evidente, ma con una differenza: quel mondo rimane esterno, in qualche modo, a Orwell, che non ne fa parte, pur sentendone profondame­nte l’orribile presenza, mentre Kadare è un po’ come se avesse realmente vissuto sotto lo sguardo del Grande Fratello.

Prolifico autore di numerosiss­ime opere che non si possono elencare tutte e possente poeta del grottesco e del fantastico, Kadare raggiunge forse la sua più vera grandezza non solo evocando imperi e tirannidi, ma narrando storie semplici e profonde come la vita stessa — ad esempio nella Provocazio­ne (2012, in uscita domani in traduzione italiana per La nave di Teseo), breve, asciutto e indimentic­abile racconto di guerra in cui fra due postazioni avverse che si fronteggia­no con sporadici colpi di cannone passa e ripassa dall’una all’altra parte la lettiga di una donna ferita, in una scialba sequela di trincee illuminata da errabondi riflessi di calda umanità. Insensatez­za, inconcepib­ilità della guerra, in cui pur avviene, tra eventi di poco conto, e in una dimessa essenziali­tà kafkiana, l’inconsapev­ole maturazion­e umana del caporale Fred Kosturi, uno dei grandi «cuori semplici» della letteratur­a.

 ??  ?? 20 febbraio 1991, la folla abbatte la statua di bronzo di Enver Hoxha al centro della piazza principale di Tirana, in Albania (foto Lulzim Lika / Reuters)
20 febbraio 1991, la folla abbatte la statua di bronzo di Enver Hoxha al centro della piazza principale di Tirana, in Albania (foto Lulzim Lika / Reuters)
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