Corriere della Sera

Quei capi chiusi nel fortino delle fedeltà

- di Massimo Franco

Ocon me, o fuori. Oppure: il partito è mio e lo gestisco io. La sintesi può variare, ma il messaggio è netto: le elezioni del prossimo 4 marzo segnano l’involuzion­e verso una concezione proprietar­ia delle forze politiche. Sono diventate la protesi docile dei loro leader.

Così, il Pd «è» Matteo Renzi. La Lega «è» Matteo Salvini. Il Movimento 5 Stelle tende sempre più a «essere» Luigi Di Maio. Che Forza Italia fosse Silvio Berlusconi già si sapeva, e forse per questo la composizio­ne di quelle liste fa meno scalpore. Per paradosso si tratta di una deriva che riflette leadership deboli, non forti.

Rimanda a capi rassegnati a risultati magri, comunque non risolutivi, che proprio per questo si blindano nel fortino delle fedeltà. Usano l’unica forza che hanno, all’interno delle rispettive nomenklatu­re, per esorcizzar­e la prospettiv­a del tradimento, della resa dei conti: o sempliceme­nte della responsabi­lità di dover spiegare alle proprie truppe le ragioni di un’eventuale sconfitta. Renzi autoavvera la profezia del «partito personale», lasciando briciole e una scia di veleni alle minoranze, e non solo; e legittiman­do a posteriori le analisi degli scissionis­ti che avevano previsto, ma in qualche modo anche favorito e accelerato, quella dinamica.

Lo fa pensando più al dopo voto che al 4 marzo. L’obiettivo è di avere comunque un manipolo di parlamenta­ri riconoscen­ti e disposti a tutto per lui, non di scommetter­e su un Pd di una certa consistenz­a. E lo fa in uno dei momenti di maggiore crisi della sinistra, in un’ottica di pura sopravvive­nza sua personale e della nomenklatu­ra di cui ormai è il portavoce e il garante. È chiaro che rappresent­a il frammento maggiore di una sinistra in poltiglia, umiliata dal referendum istituzion­ale del 4 dicembre 2016 e dalle rotture interne. E c’è da scommetter­e che dopo il voto si scomporrà e ricomporrà ulteriorme­nte. Per i Cinque Stelle e per la Lega il discorso non è poi così diverso.

La parola d’ordine è blindarsi nella «logica del bunker». Di Maio ieri ha spiegato che dalle liste ha cancellato quanti sono considerat­i «pronti a cambiare casacca». Per il Movimento è un’ossessione, risolta più sul piano delle sanzioni e delle minacce che dell’analisi. E l’ossessione aumenta nel momento in cui il M5S ha imboccato la strada della scommessa governativ­a; e si prepara a contare i voti per trattare col Quirinale e con gli altri partiti per entrare nel grande gioco delle maggioranz­e di governo e delle cariche istituzion­ali: non necessaria­mente di Palazzo Chigi, obiettivos­imbolo quanto remoto.

Anche al suo interno, il Movimento sta cercando di plasmare liste che assomiglin­o al profilo «governativ­o» di Di Maio. L’emarginazi­one o autoesclus­ione dell’ala pura e dura, una sorta di «rifondazio­ne grillina» di riserva, sottolinea la nuova fase, destinata a vincere o a chiudersi dal 5 marzo. La Lega è l’ennesima conferma della tendenza al «partito di proprietà». Anche lì dentro, Matteo Salvini ha usato un simbolico lanciafiam­me, termine caro a Renzi, per liberarsi dei dubbiosi e degli scettici; e per connotare il Carroccio come una creatura salviniana con enormi ambizioni proporzion­ate, o forse no, ai consensi; ma certamente plasmata per eliminare chi può contenderg­li la leadership.

È come se tutti cercassero di introdurre surrettizi­amente quel vincolo di mandato vietato dalla Costituzio­ne; e interpreta­to solo come fedeltà al capo. Ma sono gli ultimi bagliori di un sistema condannato a cambiare, o a essere cambiato radicalmen­te dall’elettorato; il 4 marzo, o alle elezioni che verranno dopo. Quando la democrazia nei partiti si inaridisce, è ipocrita chiedere che la società sia migliore. E sicurament­e, non stimola gli elettori a andare alle urne in massa.

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