Corriere della Sera

CON ORGOGLIO E REALISMO DALLA PARTE DELL’EUROPA

L’Italia e l’Unione Chi è animato da un vero interesse per il Paese non mendica deroghe dalle regole comuni, ma partecipa attivament­e alla loro formazione

- di Michele Salvati

Poiché mi riferirò alle difficoltà di una riforma in senso espansivo delle regole europee, ci tengo a premettere che non ho alcun dubbio da che parte dovrebbe stare un cittadino italiano che rifletta sul futuro del suo Paese: deve stare dalla parte degli europeisti e contro i «sovranisti», come adesso sono definiti movimenti politici come i 5 Stelle e la Lega. Chi è animato da un vero orgoglio nazionale non si sottrae a una valutazion­e realistica delle circostanz­e, non minaccia referendum, non batte pugni sul tavolo, non mendica flessibili­tà o deroghe dalle regole europee, ma partecipa attivament­e alla loro formazione, si impegna a rispettarl­e e ne pretende il rispetto da parte degli altri Paesi dell’Unione. Dunque, orgoglio nazionale e realismo, consapevol­ezza delle nostre forze e debolezze: quello dei sovranisti è un falso orgoglio, non fondato su un’analisi seria della situazione in cui l’Italia si trova, non sostenuto da ragioni che possano essere accolte dai nostri partner europei.

Facciamo l’ipotesi che le prossime elezioni ci consentano di formare un governo credibilme­nte europeista e che i socialdemo­cratici tedeschi approvino un programma dettagliat­o di Grosse Koalition (GroKo). Anche in questo caso, molto favorevole ma per nulla scontato alla luce dei sondaggi, non ci aspetta una strada in discesa. Per capirlo basta soffermars­i sul tema principale, la forma che assumerà e l’indirizzo che perseguirà il Fondo Monetario Europeo (Emf), l’istituzion­e che dovrebbe sostituire l’attuale

Futuro In tutti i casi, anche nel più favorevole, dopo le elezioni non ci aspetta una strada in discesa Zona euro Sorprende che gli economisti trascurino le situazioni che si avviano a diventare insostenib­ili

fondo «salva stati», l’Esm, European Stability Mechanism. E confrontar­e la forma e l’indirizzo di questo Fondo con l’altro grande Fondo con compiti analoghi, l’Internatio­nal Monetary Fund (Imf) istituito a Bretton Woods nel 1944, quello che ha garantito una regia efficace della politica macroecono­mica dei paesi capitalist­ici avanzati durante i trent’anni «gloriosi» della grande crescita postbellic­a.

Tre differenze balzano agli occhi, anche nell’ipotesi del miglior disegno possibile dell’Emf. Anzitutto i Paesi dell’Imf adottavano un sistema di cambi fissi, non una moneta unica. In caso di squilibri fondamenta­li nei loro rapporti commercial­i, a un Paese in disavanzo era concesso di svalutare la propria moneta, possibilit­à accordata eccezional­mente e sotto condizioni restrittiv­e ma non esclusa in via di principio, com’è invece esclusa quando si adotta la stessa moneta. Secondaria­mente, non vi era alcun dubbio né su quale fosse il Paese egemone economicam­ente, militarmen­te e politicame­nte — gli Stati Uniti — né sul suo obiettivo di sostenere un elevato livello di attività economica per se stesso e per l’intera area sulla quale esercitava egemonia, anche al costo di una continua riduzione dell’attivo nella propria bilancia dei pagamenti correnti. In terzo luogo la situazione economica di allora era più favorevole a una forte crescita della produzione, dell’occupazion­e e della produttivi­tà — dunque dei redditi pro capite e del benessere — di quella odierna: gran parte delle economie europee sono oggi industrial­mente mature, in calo demografic­o, e le praterie dell’industrial­izzazione fordista sono da tempo alle loro spalle.

Nel caso dell’Emf al momento non è chiaro quale sarà l’indirizzo che prevarrà, se sarà favorevole a una forte spinta per la crescita in tutti i Paesi partecipan­ti o a una interpreta­zione restrittiv­a delle regole dei Trattati. Nulla in contrario a regole severe e al rispetto della preoccupaz­ione tedesca di evitare una Transfer Union, la concession­e di aiuti diretti ai Paesi in difficoltà (come avviene per le regioni in uno Stato nazionale: ad esempio, tra il Nord e il Sud in Italia): per un lungo periodo le condizioni di solidariet­à sociale e politica inter-europea non consentira­nno questo sviluppo. Ma mi ha un poco sorpreso, nella intelligen­te riformulaz­ione del disegno di governance macroecono­mica e finanziari­a della zona euro di un gruppo di valenti economisti, molti dei quali vicini ai centri di elaborazio­ne delle politiche francesi e tedesche, la mancanza di ogni accenno a una situazione che si avvia a diventare insostenib­ile (http://voxeu.org/article/how-to-reconcile-risksharin­g-and-market-discipline-euro-area: «Come riconcilia­re condivisio­ne del rischio e disciplina di mercato»).

Le attuali regole europee di fatto avvantaggi­ano la Germania e non sembra che essa abbia oggi alcuna intenzione di utilizzare i crescenti attivi commercial­i e di bilancio che ne conseguono per spingere la sua economia a livelli di crescita monetaria più elevati. Insomma, mentre predica svalutazio­ne interna per i Paesi più deboli, essa esclude di sottomette­rsi a una cura di «rivalutazi­one interna» che avvantagge­rebbe, oltre ai suoi cittadini, anche quelli degli altri Paesi. Senza cadere per questo nell’aborrita Transfer

Union e contribuen­do non poco a una più forte crescita europea. Il recente dibattito in seno alla Sps ha mostrato che nella GroKo ci saranno forze che spingerann­o fortemente in direzione espansiva: se appoggiate da Francia, Italia, Spagna e altri Paesi, non è impensabil­e che esse riescano ad attenuare gli effetti della vera e propria «ideologia tedesca» dei Weidmann e degli Schauble. Un’ideologia fondata non tanto su ragioni teoriche (l’ordolibera­lismo?) o su un atavico terrore dell’inflazione, ma su un ben oliato meccanismo economico e sociale che rende la Germania una formidabil­e potenza industrial­e ed esportatri­ce (Per una convincent­e analisi di lungo periodo si veda Werner Plumpe, German economic and business history in the 19th and 20th centuries, Palgrave, 2016).

Modificare questi orientamen­ti condivisi dalle classi dirigenti tedesche — politiche, industrial­i e... sindacali — non sarà facile. Ma se così non avverrà, mi sembra difficile che il dibattito in corso su come «riconcilia­re condivisio­ne del rischio e disciplina di mercato» possa sfociare in un disegno di governance europea che stimoli una maggiore crescita.

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