CON ORGOGLIO E REALISMO DALLA PARTE DELL’EUROPA
L’Italia e l’Unione Chi è animato da un vero interesse per il Paese non mendica deroghe dalle regole comuni, ma partecipa attivamente alla loro formazione
Poiché mi riferirò alle difficoltà di una riforma in senso espansivo delle regole europee, ci tengo a premettere che non ho alcun dubbio da che parte dovrebbe stare un cittadino italiano che rifletta sul futuro del suo Paese: deve stare dalla parte degli europeisti e contro i «sovranisti», come adesso sono definiti movimenti politici come i 5 Stelle e la Lega. Chi è animato da un vero orgoglio nazionale non si sottrae a una valutazione realistica delle circostanze, non minaccia referendum, non batte pugni sul tavolo, non mendica flessibilità o deroghe dalle regole europee, ma partecipa attivamente alla loro formazione, si impegna a rispettarle e ne pretende il rispetto da parte degli altri Paesi dell’Unione. Dunque, orgoglio nazionale e realismo, consapevolezza delle nostre forze e debolezze: quello dei sovranisti è un falso orgoglio, non fondato su un’analisi seria della situazione in cui l’Italia si trova, non sostenuto da ragioni che possano essere accolte dai nostri partner europei.
Facciamo l’ipotesi che le prossime elezioni ci consentano di formare un governo credibilmente europeista e che i socialdemocratici tedeschi approvino un programma dettagliato di Grosse Koalition (GroKo). Anche in questo caso, molto favorevole ma per nulla scontato alla luce dei sondaggi, non ci aspetta una strada in discesa. Per capirlo basta soffermarsi sul tema principale, la forma che assumerà e l’indirizzo che perseguirà il Fondo Monetario Europeo (Emf), l’istituzione che dovrebbe sostituire l’attuale
Futuro In tutti i casi, anche nel più favorevole, dopo le elezioni non ci aspetta una strada in discesa Zona euro Sorprende che gli economisti trascurino le situazioni che si avviano a diventare insostenibili
fondo «salva stati», l’Esm, European Stability Mechanism. E confrontare la forma e l’indirizzo di questo Fondo con l’altro grande Fondo con compiti analoghi, l’International Monetary Fund (Imf) istituito a Bretton Woods nel 1944, quello che ha garantito una regia efficace della politica macroeconomica dei paesi capitalistici avanzati durante i trent’anni «gloriosi» della grande crescita postbellica.
Tre differenze balzano agli occhi, anche nell’ipotesi del miglior disegno possibile dell’Emf. Anzitutto i Paesi dell’Imf adottavano un sistema di cambi fissi, non una moneta unica. In caso di squilibri fondamentali nei loro rapporti commerciali, a un Paese in disavanzo era concesso di svalutare la propria moneta, possibilità accordata eccezionalmente e sotto condizioni restrittive ma non esclusa in via di principio, com’è invece esclusa quando si adotta la stessa moneta. Secondariamente, non vi era alcun dubbio né su quale fosse il Paese egemone economicamente, militarmente e politicamente — gli Stati Uniti — né sul suo obiettivo di sostenere un elevato livello di attività economica per se stesso e per l’intera area sulla quale esercitava egemonia, anche al costo di una continua riduzione dell’attivo nella propria bilancia dei pagamenti correnti. In terzo luogo la situazione economica di allora era più favorevole a una forte crescita della produzione, dell’occupazione e della produttività — dunque dei redditi pro capite e del benessere — di quella odierna: gran parte delle economie europee sono oggi industrialmente mature, in calo demografico, e le praterie dell’industrializzazione fordista sono da tempo alle loro spalle.
Nel caso dell’Emf al momento non è chiaro quale sarà l’indirizzo che prevarrà, se sarà favorevole a una forte spinta per la crescita in tutti i Paesi partecipanti o a una interpretazione restrittiva delle regole dei Trattati. Nulla in contrario a regole severe e al rispetto della preoccupazione tedesca di evitare una Transfer Union, la concessione di aiuti diretti ai Paesi in difficoltà (come avviene per le regioni in uno Stato nazionale: ad esempio, tra il Nord e il Sud in Italia): per un lungo periodo le condizioni di solidarietà sociale e politica inter-europea non consentiranno questo sviluppo. Ma mi ha un poco sorpreso, nella intelligente riformulazione del disegno di governance macroeconomica e finanziaria della zona euro di un gruppo di valenti economisti, molti dei quali vicini ai centri di elaborazione delle politiche francesi e tedesche, la mancanza di ogni accenno a una situazione che si avvia a diventare insostenibile (http://voxeu.org/article/how-to-reconcile-risksharing-and-market-discipline-euro-area: «Come riconciliare condivisione del rischio e disciplina di mercato»).
Le attuali regole europee di fatto avvantaggiano la Germania e non sembra che essa abbia oggi alcuna intenzione di utilizzare i crescenti attivi commerciali e di bilancio che ne conseguono per spingere la sua economia a livelli di crescita monetaria più elevati. Insomma, mentre predica svalutazione interna per i Paesi più deboli, essa esclude di sottomettersi a una cura di «rivalutazione interna» che avvantaggerebbe, oltre ai suoi cittadini, anche quelli degli altri Paesi. Senza cadere per questo nell’aborrita Transfer
Union e contribuendo non poco a una più forte crescita europea. Il recente dibattito in seno alla Sps ha mostrato che nella GroKo ci saranno forze che spingeranno fortemente in direzione espansiva: se appoggiate da Francia, Italia, Spagna e altri Paesi, non è impensabile che esse riescano ad attenuare gli effetti della vera e propria «ideologia tedesca» dei Weidmann e degli Schauble. Un’ideologia fondata non tanto su ragioni teoriche (l’ordoliberalismo?) o su un atavico terrore dell’inflazione, ma su un ben oliato meccanismo economico e sociale che rende la Germania una formidabile potenza industriale ed esportatrice (Per una convincente analisi di lungo periodo si veda Werner Plumpe, German economic and business history in the 19th and 20th centuries, Palgrave, 2016).
Modificare questi orientamenti condivisi dalle classi dirigenti tedesche — politiche, industriali e... sindacali — non sarà facile. Ma se così non avverrà, mi sembra difficile che il dibattito in corso su come «riconciliare condivisione del rischio e disciplina di mercato» possa sfociare in un disegno di governance europea che stimoli una maggiore crescita.