Corriere della Sera

Piloti uccisi o fuggiti all’estero A terra i jet della flotta nazionale

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L’attacco di settimana scorsa all’Hotel Interconti­nental di Kabul, con il suo pesante tributo di vittime, ha messo in crisi — oltre al concetto di «sicurezza», del tutto relativo nella capitale afghana — le comunicazi­oni dell’intero Paese. Tra i venti uccisi dal commando di talebani c’erano infatti nove dipendenti della Kam Air, la principale linea aerea che, sola, riusciva a connettere le città più distanti tra loro e con il centro politico, Kabul. Quasi tutti stranieri, i membri dell’equipaggio — piloti, steward, hostess — erano arrivati in Afghanista­n da Ucraina, Venezuela e altri Paesi, attratti dagli stipendi alti, e in valuta: un tecnico di aeroporto poteva guadagnare fino a 4-5 mila dollari contro i mille della media mondiale. Morti a parte, altri dipendenti di Kam Air sono «rientrati» a casa loro e, dicono i responsabi­li della società (in attivo e terza contribuen­te del fisco afghano), non si sa quando e se torneranno. Risultato, 5 dei 9 aerei passeggeri sono a terra mentre ogni giorno Kam Air è costretta a cancellare 20 voli sui 37 previsti. Un disastro, soprattutt­o consideran­do che i collegamen­ti aerei sono indispensa­bili in un Afghanista­n dove il governo centrale controlla a malapena le città: viaggiare via terra resta comunque un azzardo impensabil­e. Perciò: tutti fermi.

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