Corriere della Sera

Grandi società: la maxi elusione

È la stima dell’elusione fiscale delle multinazio­nali, soprattutt­o americane, a danno di Paesi come Italia, Francia e Germania

- di Federico Fubini

Ogni anno 600 miliardi vengono nascosti al fisco. È solo una stima. Ma sarebbe l’elusione fiscale messa in atto da poche ma grandi multinazio­nali, soprattutt­o americane a danno di Paesi come Italia, Francia e Germania. L’occasione per parlarne è arrivata qualche giorno fa a Davos in un dibattito pubblico sui paradisi fiscali.

Distratti dall’arrivo di Donald Trump, i manager presenti all’ultimo Forum di Davos andrebbero perdonati nel caso si fossero persi un dettaglio: vale 627 miliardi di euro la base imponibile nascosta solo nel 2015 da poche grandi multinazio­nali al fisco di Paesi come Germania, Francia e Italia (e vari altri). In quell’anno - uno fra i molti nei quali gli stessi fenomeni si ripetono - è di duecento miliardi di euro il gettito sottratto ai governi attraverso la rete dei paradisi fiscali. Per compensare l’ammanco, hanno dunque dovuto versare più tasse i normali lavoratori dipendenti o autonomi, i pensionati e anche - attraverso l’Iva sui beni di consumo - le persone i cui redditi sono così bassi da restare al di sotto delle soglie tassabili.

Il danno per l’Italia

Per l’Italia, il trasferime­nto artificial­e all’estero dei ricavi alcune grandi multinazio­nali ha prodotto nel 2015 un’erosione di quasi un quarto della base imponibile del prelievo sulle società: 7,4 miliardi di euro in tutto, una perdita di 0,5% del reddito nazionale sul 2015 che con ogni probabilit­à si sta riproducen­do ogni anno. In media, i Paesi dell’Unione Europea perdono così circa un quinto delle entrate alle quali avrebbero titolo dalle imprese. Ma non va malamente allo stesso modo per tutti. I tre più grandi paradisi fiscali per le grandissim­e imprese non sono infatti annidati in qualche isola dei Caraibi o dell’Oceano Pacifico. Al contrario, prosperano in gran parte indisturba­ti nel cuore della zona euro: Olanda, Lussemburg­o e Irlanda sono tre piccoli Paesi - poco più del 6% della popolazion­e dell’unione monetaria ma rappresent­ano nel complesso quasi metà dell’elusione fiscale internazio­nale delle grandi società. In gran parte questi tre Paesi operano in questo modo direttamen­te a danno degli altri, gli stessi con i quali condividon­o la moneta e severe regole di vigilanza sui bilanci pubblici.

L’occasione per parlarne è arrivata qualche giorno fa, a Davos, in un incontro sui paradisi fiscali. È allora che sono stati presentati i risultati di uno studio pubblicato d*ue mesi fa da tre economisti: Thomas Tørsløv e Ludvig Wier dell’Università di Copenaghen, insieme a Gabriel Zucman dell’Università di California a Berkeley. I tre hanno appena portato a termine un lavoro da veri e propri detective del sistema di contabilit­à internazio­nale. Il loro obiettivo era calcolare l’impatto dell’elusione da parte di grandi gruppi come Apple, Facebook, Amazon, Google-Alphabet o Nike. Non è un compito facile, che infatti sfugge in gran parte agli stessi governi. Risultano infatti invisibili molti degli spostament­i ad arte di utili dal Paese in cui sono stati realizzati a un Paese che offre aliquote effettive quasi a zero, in primo luogo perché vengono registrati come proventi da attività intangibil­i: brevetti, ricerca e sviluppo, importazio­ne di servizi. Non per niente, i tre studiosi notano alcuni paradossi nella contabilit­à di Nike, Facebook, Apple e Google. In ciascuno di questi gruppi, la somma dei profitti realizzati dalle società controllat­e - così come visibile nella banca dati Orbis di Bureau Van Dijk-Moody’s - bizzarrame­nte risulta pari a una frazione minima dei profitti consolidat­i globali. Il caso più estremo è Facebook, i cui profitti del 2015 sono di circa 11 miliardi di euro ma la somma dei ricavi tassabili di tutte le sussidiari­e resta a zero.

Per individuar­e la reale situazione Tørsløv, Wier e Zucman cercano indizi nella quantità di ricavi tassabili in proporzion­e al monte-salari dei dipendenti in ogni dato Paese: i profitti trasferiti artificial­mente infatti gonfiano il bilancio, ma non il numero dei dipendenti. I tre indagano anche per capire in quali Paesi risultano la quota di profitti in mano agli stranieri sia curiosamen­te fuori proporzion­e e studiano le comunicazi­oni (obbligator­ie) a Eurostat di tutti i Paesi europei sulla contabilit­à aggregata delle imprese.

Le accuse all’Olanda

Alla fine vengono fuori conferme impression­anti sui soliti sospetti. Il Lussemburg­o, con aliquote bassissime su una base imponibile tanto artificial­e quanto sterminata, presenta profitti societari tassabili pari a sette volte le medie europee (in rapporto al montesalar­i). Del tutto fuori linea anche Irlanda e Olanda. Questi tre Paesi nel 2015 pesano da soli per 293 miliardi di euro di base imponibile societaria sottratta al resto del mondo, più di cento miliardi ciascuna per Irlanda e Olanda. Poco importa che proprio il governo dell’Aia sia stato in prima linea dall’inizio della crisi nell’esigere rigore di bilancio agli stessi Paesi ai quali nel frattempo sottraeva decine di miliardi di entrate fiscali. Ai grandi gruppi bastava registrare nei Paesi Bassi profitti realizzati nel resto d’Europa sulla vendita di servizi definiti «intangibil­i», perché digitali. Questi ricavi fatti apparire in Olanda con aliquote quasi a zero sono così vasti che l’avanzo estero del piccolo Paese sull’estero (80 miliardi di dollari) si avvicina ormai a quello della Cina (120 miliardi).

Il paradosso di Dublino

Dell’Irlanda era presente all’incontro di Davos il ministro delle Finanze Paschal Donohoe. Davide Serra, il fondatore del fondo Algebris, gli ha presentato le proprie stime sulla contabilit­à dei rapporti di Dublino con l’Unione Europea dal momento dell’ingresso 40 anni fa: si contano 150 milioni di euro di trasferime­nti netti dall’Irlanda al resto d’Europa, attraverso il bilancio comunitari­o; e 200 miliardi di elusione innescata da Dublino a danno degli altri Paesi. È celebre il caso di Apple, la cui aliquota effettiva ritagliata ad hoc era dello 0,005% nel 2014 (il gruppo di Cupertino di recente ha accettato una transazion­e). Meno noto invece il caso di Google, presentato da Serra a Davos. Nel 2015 il gruppo di Menlo Park ha realizzato ricavi per 22,6 miliardi in Europa, Medio Oriente e Africa. Tutte le entrate sono emerse contabilme­nte in Irlanda. Tuttavia, fra «diritti di proprietà intellettu­ale» pagati a altre controllat­e dello stesso gruppo e varie deduzioni, alla fine Google ha pagato solo 48 milioni di tasse all’Irlanda e quasi zero a chiunque altro. Si tratta un’aliquota effettiva dello 0,2% sui redditi. Sono operazioni del genere, secondo i tre studiosi di Copenaghen e Berkeley, a produrre ormai distorsion­i immense: due terzi dei profitti esteri delle multinazio­nali americane nel 2015 (e il 45% di quelle di tutto il mondo) slittano verso i paradisi fiscali. E sulle spalle dei contribuen­ti ordinari degli Stati Uniti e dell’Europa pesano 60 miliardi di euro in più da pagare al posto di chi elude.

Per l’Italia, il trasferime­nto artificial­e all’estero dei ricavi di alcune multinazio­nali ha prodotto nel 2015 un’erosione di quasi un quarto della base imponibile del prelievo: 7,4 miliardi di euro

 ??  ??
 ??  ?? Nike Mark Parker, 62 anni, è amministra­tore delegato di Nike dal 2006, dove è entrato nel 1979
Nike Mark Parker, 62 anni, è amministra­tore delegato di Nike dal 2006, dove è entrato nel 1979
 ??  ?? Google Sundar Pichai, 45 anni, dal 2015 è il numero uno del gruppo del motore di ricerca
Google Sundar Pichai, 45 anni, dal 2015 è il numero uno del gruppo del motore di ricerca
 ??  ?? Apple Tim Cook, 57 anni, è amministra­tore delegato di Apple dall’agosto del 2011
Apple Tim Cook, 57 anni, è amministra­tore delegato di Apple dall’agosto del 2011
 ??  ?? Facebook Mark Zuckerberg, 33 anni, ha fondato Facebook nel 2004
Facebook Mark Zuckerberg, 33 anni, ha fondato Facebook nel 2004

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy