L’America e le sue alleanze
Il documento annuale sulla sicurezza nazionale, pubblicato dall’attuale presidenza nello scorso dicembre, dimostra che Trump e il suo stato maggiore hanno della sicurezza americana una concezione globale; e dal testo emerge continuamente la sensazione che gli Stati ambiziosi e poco inclini ad accettare la leadership americana debbano essere trattati come potenziali nemici.
È difficile immaginare che un uomo animato da questi sentimenti voglia rinunciare alle numerose basi militari (parecchie decine nei cinque continenti) che ha ereditato dai suoi predecessori. Ma queste basi sono state create in un’epoca in cui il Paese ospitante e il Paese ospitato avevano interessi comuni e, nelle grandi emergenze, gli stessi nemici.
Possono avere interessi comuni, soprattutto dopo la fine della Guerra fredda, se Trump continuerà a trattare le regole multilaterali del commercio internazionale come le sbarre di una prigione che il suo Paese deve spezzare? Trump risponderebbe, come a Davos, vantando le ricadute della sua riforma fiscale e sostenendo che quando l’America cresce, tutti crescono. Ma nella realtà tutti crescono insieme soltanto se ogni Paese, perseguendo i propri obiettivi, è consapevole delle esigenze di coloro con cui deve raggiungere un’intesa. Come negli anni Trenta il protezionismo può soltanto generare nuovi protezionismi.
In ultima analisi il problema è anzitutto americano. Tocca agli elettori degli Stati Uniti decidere se dietro le strategie di Trump non si nasconda la prospettiva di un progressivo declino del loro Paese e se non sia interesse dell’America correggere la rotta.