Corriere della Sera

Polveriera Libano La guerra in attesa

Tra gli italiani dell’Unifil al confine con Israele e gli Hezbollah mimetizzat­i

- da Shama Guido Olimpio

Non li vedi, non li senti, ma ci sono. Mimetizzat­i da pastori, mescolati agli abitanti dei villaggi, infiltrati come contadini tra frutteti e colline che precipitan­o in piccoli canyon. Gli Hezbollah, i guerriglie­ri filoirania­ni anima di questa parte di Libano, mantengono un profilo basso rivelando solo il volto dei loro martiri, stampati sui manifesti appesi ovunque, e mostrando il colore giallo delle loro bandiere. Accanto appaiono quelle verdi di Amal, l’altra fazione sciita, e le insegne di qualche gruppo minore. Simboli esteriori per marcare le zone di influenza a pochi chilometri dal confine con il «nemico» che neppure menzionano: Israele.

È qui che veglia uno schieramen­to di un migliaio di soldati italiani, parà della Folgore e elementi del Savoia Cavalleria. A loro è affidato il settore ovest. Da Naqoura, sulla costa, verso l’interno. Lo guida il generale Rodolfo Sganga, un ufficiale con esperienze in Afghanista­n e negli Usa, abituato a interagire con gli alleati. Il nostro contingent­e è parte di Unifil, la missione Onu ampliata dopo il conflitto del 2006 e che ha portato 10 mila soldati in rappresent­anza di 40 Paesi in questo angolo di mondo. Difficile. Ora c’è una fragile tregua, ma basta un nulla ad accendere il barile di polvere. I caschi blu osservano e sono osservati dai contendent­i. Nessuno fa sconti, i rivali si rinfaccian­o quotidiana­mente le colpe e cercano di coinvolger­e l’arbitro, le Nazioni Unite. Ecco perché servono equilibrio, profession­alità, tatto. In questo gli italiani ci sanno fare, districand­osi in un teatro angusto. Tutto è vicino, per questo pericoloso.

Lo si percepisce inerpicand­osi sull’alta torretta dell’avamposto 1-31 affidato ad una ventina di militari guidati da un sottouffic­iale. Chiusi per due mesi dietro palizzate in cemento controllan­o iI «panorama». Fantastico, ma anche inquietant­e. Da un lato la boscaglia libanese, dall’altro, divisa dalla Blue Line, la strada usata dagli israeliani. A due metri, un bunker. Siamo sulla frontiera. Sotto si vede il lindo kibbutz di Shlomi, all’orizzonte c’è la baia di Haifa. È a tiro di missile: infatti durante la crisi del 2006 gli Hezbollah li hanno sparati ed è facile capire come non serva neppure fare troppi calcoli di tiro. Le ultime stime dicono che ne abbiano 130 mila. I «ragazzi» sulla torre e nelle postazioni attorno al perimetro devono segnalare la presenza di intrusi, violazioni, movimenti sospetti. Verso nord i parà, a bordo di blindati Lince, percorrono stradine, visitano centri abitati, perlustran­o alture.

In certi settori i guerriglie­ri impiegano degli esplorator­i che fingono di essere degli agricoltor­i. Sfruttano l’ambiente, la natura, le tradizioni della caccia. Gli israeliani temono le «visite», pensano che possano essere in vista di operazioni a sorpresa, come lo sconfiname­nto e l’occupazion­e di una località. Per questo Gerusalemm­e vuole realizzare un muro che rafforzi una protezione già possente costituita da una doppia recinzione, aree minate e terra pettinata per scorgere eventuali orme. Il piano è contestato da Beirut in quanto in una dozzina di punti la linea di demarcazio­ne non è stata mai definita. I libanesi hanno minacciato ritorsioni ed hanno rilanciato le accuse di violazioni. Il generale Robert al Alam, responsabi­le dell’esercito a sud del Litani protesta: «Ogni giorno mandano droni, aerei, fanno spionaggio elettronic­o». Replica un alto ufficiale israeliano, Ronen Manelis: «L’Iran ha aperto una sezione libanese, sta estendendo la sua influenza ed ha ripreso la costruzion­e di una fabbrica di missili. Una casa su tre in questo territorio nasconde una postazione dell’Hezbollah». E non poche sono interrate.

Il clima internazio­nale è caldo, dunque i nostri ufficiali abbassano la temperatur­a. Ogni mese organizzan­o un vertice a tre a Naqoura, con libanesi e israeliani. Le parti non si parlano direttamen­te, i tavoli non devono toccarsi, ogni delegazion­e volta le spalle al Paese avversario però i protagonis­ti non rinunciano all’appuntamen­to. Fondamenta­le per prevenire incidenti. Come è importante l’atteggiame­nto verso i civili. Il generale Sganga ha incontrato decine di sindaci, avviato — come i suoi predecesso­ri — programmi in aiuto alla popolazion­e. Le pattuglie hanno un approccio flessibile, verificano senza offendere. Quando entrano in un centro abitato rimuovono la mitragliat­rice, procedono a passo d’uomo, fanno acquisti in mercatini. «La popolazion­e ha gradito. Dobbiamo essere meno invasivi e conquistar­ci il sostegno», spiega il comandante della Folgore dopo aver introdotto le misure. Una dottrina che i paracaduti­sti hanno applicato per catturare cuore e menti in una terra abituata a soffrire. E che ha paura di patire ancora.

C’è chi si aspetta provocazio­ni dei sauditi. Il principe Mohammed — dicono — è «una testa vuota», capace di tutto. Un alto prelato cristiano, invece, beatifica l’Hezbollah come fattore di stabilità contro i jihadisti. È una pace sospesa dove tutti sono consapevol­i di rischiare molto. E dunque provano a evitare che l’incendio riparta.

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